– di Riccardo De Stefano –
Diego Alligatore, noto anche come “L’Alligatore”, ha creato Il Blog dell’Alligatore nell’ormai lontano 2007, attività a cui si è dedicato con costanza parallelamente a una serie di altri progetti, come la collaborazione con Smemoranda e l’attività di scrittura di libri, culminata con la pubblicazione, nel 2021, del suo libro Giovani, Musicanti e disoccupati, sottotitolato L’underground italico nel 2020, per la casa editrice romana Arcana Edizioni. Un titolo importante e attuale, in cui viene affrontata la situazione della scena underground e indipendente in un momento di grande difficoltà per tutto il mondo della musica. Gli abbiamo fatto qualche domanda in merito e questo è ciò che ci ha raccontato.
Giovani, musicanti e disoccupati (Arcana Edizioni, 2021) è un affresco di una scena spesso sottaciuta nella musica attuale. Com’è nata l’idea di parlare del mondo “di sotto”, quello degli emergenti e dell’underground, e di come ha subito il nefasto 2020 della pandemia e del lockdown?
È nato quasi per caso nel marzo 2020, quando ancora non era ben chiara la minaccia che incombeva su di noi: stavo intervistando Jet Set Roger, al secolo Roger Rossini, italo-inglese di Brescia, che aveva appena fatto un bellissimo concept album ispirato da una novella di Stevenson (“Un rifugio per la notte”, Snowdonia Dischi). Tra le domande mie, una sulla ritrovata centralità del singolo nell’indie pop italico. Non mi sembrava convinto, ma liquidò la riposta definendo la questione complessa. Nei giorni seguenti scrissi a Jet Set Roger per chiedere una riposta più dettagliata: meglio un singolo o un disco intero? Mi venne voglia di chiederlo a molti altri amici della scena underground. Una quindicina di musicanti, che in quel periodo erano a casa, bloccati dal primo lockdown. Cosa curiosa, questa domanda “singolo vs disco”, era partita da un altro libro dell’Arcana, che avevo appena letto: “Era Indie” di un certo Riccardo De Stefano.
Uno dei temi principali del libro è l’effetto che la pandemia ha avuto sulla musica. Partiamo da te: in che modo il 2020 ha cambiato la tua concezione di “musica”? Hai cambiato modo di approcciarti all’ascolto, ai live, alla fruizione della musica?
Inevitabilmente sì. Ovviamente i concerti visti, da quel maledetto marzo 2020, si sono ridotti drasticamente, tanto che si contando sulle dita di una mano (sono più un critico da album, che da concerti, questo va detto). Ho visto, e vedo arrivare sempre più singoli da allora. In particolare in questi ultimi mesi, è un fiorire della politica del singolo. «Le cose stanno girando in un modo che non mi convince», mi ha scritto un amico che gestisce la promozione di dischi. Lo capisco, anch’io mi sento spaesato, dopo vent’anni circa che le cose sono girate in un certo qual modo (anche se nell’ultimo decennio sono già iniziate a cambiare e, con la pandemia, mazzata finale…).
Il titolo del tuo libro sembra incarnare un po’ l’opinione comune di chi fa musica, quasi un “passatempo” per chi non ha un lavoro vero. Un tema che spesso torna è che “la musica è un lavoro”, ma è (ancora) vero questo?
È un lavoro, nel senso un qualche cosa che porta via del tempo per farlo al meglio, in maniera professionale, però spesso e volentieri non viene remunerato quanto si dovrebbe, e questo costringe il giovane, o il meno giovane, a fare altri lavori. Non entro nel discorso dell’indotto (la musica non è solo il cantante sul palco, ma anche l’elettricista, il fonico, ecc.), ma segnalo drammaticamente, che tutti i lavori nel corso degli ultimi dieci/vent’anni, anche a livello intellettuale, si sono precarizzati, per scelte politiche che io reputo sbagliate. Mi ricordo il buon Terzani a una presentazione di un suo libro all’inizio del secolo (era Lettere contro la guerra), che prendeva in giro bonariamente i giovani, sul fatto che nessuno avesse un lavoro vero (ne facevano uno, ma in realtà quello vero era un altro). Nella musica, per definizione liquida, la situazione è ancora peggiore.
Cosa ne pensi della proposta musicale di oggi? Cosa ti piace di più ascoltare della musica italiana? O, per dirla con una delle domande poste ai tuoi intervistati, “come se la passa la musica indie oggi”?
I miei ascolti sono molto vari, sia come genere, sia come età di chi la fa. Non vuole essere una risposta democristiana, ma è realtà, che la musica underground non sia ben identificabile in un genere, anche se il decennio appena passato ha visto prevalere un certo pop, una certa musica leggera più colta di quella che abbiamo conosciuto. Ascolto dai Gang a Roberta Giallo, da Andrea Chimenti a Erica Boschiero, da Peppe Voltarelli a Cristiana Verardo, da Setak ai Pindhar, da Gerardo Balestrieri a Maria Devigli. Sono attento anche alle quote rosa, come vedi, nel citare alcuni dei dischi passati dalle mie parti. Creativamente se la passa bene direi, mentre economicamente, come sai, no. E anche perché, come si diceva prima, da molti (a partire dalle istituzioni politiche), non viene visto come un lavoro vero, quello della musica, ma quasi come un hobby. La politica degli ultimi vent’anni almeno, ha voluto così precarizzare tutto un mondo, perché veniva comodo fare così… Ma ripeto, non è solo il mondo della musica. Forse quello è il più evidente, e allo stesso tempo, sottovalutato.
Come credi che sia cambiato il paradigma musicale con la pandemia? Si è perso qualcosa in questi due anni di blocco? C’è qualcosa che abbiamo invece “imparato”?
Be’, si è perso molto a livello di concerti, secondo me con chiusure e divieti assurdi, che in parte hanno creato del panico ingiustificato. Una fetta di pubblico credo sia perso per un bel periodo di tempo. Imparato, forse, che bisogna creare delle specie di sindacati, delle unioni tra precari. Non è facile, proprio perché il precariato è nascosto, ha paura di essere ricattato e perdere quel poco che ha. Ma visto che ormai abbiamo ben poco da perdere, perché non osare, andare oltre. Dire basta al precariato, ai salari da fame. Creare tutele, uno statuto del lavoro e del non-lavoro. Ci vorrà un vero New Deal, quando sarà veramente finito tutto. Il PNRR [Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ndr] è sbagliato e carente, per dire una cosa leggera.
Che consiglio daresti a un esordiente che vuole affacciarsi nel panorama musicale oggi, dopo tutti i cambiamenti avvenuti negli ultimi mesi, se non anni?
Potrei consigliare di essere consapevole che oggi la musica passa inevitabilmente dal web, quindi di conoscerlo, senza però farsi travolgere da esso, restando prima di tutto un musicista. Non è difficile per un giovane, un nativo digitale, che conosce, bene o male, tutti i nuovi social con i quali poter interagire.
Il tuo blog, Il Blog dell’Alligatore, ha da poco compiuto quattordici anni. Continui con la collaborazione con Smemoranda e ora il libro. Sei al lavoro con nuovi progetti?
Sì, vorrei scrivere un altro libro, un secondo capitolo su cosa sta succedendo nel mondo sommerso dell’underground italico. Sono in una sorta di flusso di coscienza con questi amici musicanti dell’indie italico, grazie al web, ai vari social, alle vecchie mail. Ne ho sentiti parecchi, dovrei solo montare il tutto e vedere che ne esce. Problemi personali mi hanno rallentato, ma spero di venirne a capo e concludere.
Grande L’Ally!
Bel libro