Un disco davvero interessante, fuori quel regime indie di cliché ormai in abuso, fuori dalle citazioni di stile troppo spesso deboli nascondigli a fronte di una carenza di personalità. Un disco come “English Aphasia” divide il pubblico in due dal primo istante. Si ama o si odia. Si sente dentro la rinuncia ai freni e ai filtri per avventurarsi alla codifica… o si armano i cecchini e i pregiudizi per vantare risposte a priori. “English Aphasia” è un disco che sfida l’ascolto dei puristi, che coccola le nostalgie dei veterani, che mette in scena un “teatro dell’assurdo”, dentro suoni e citazioni, dentro soluzioni pescate dai grandi dischi, dai grandi film, dalla fantasia e dall’improvvisazione. Daniele Faraotti sfida anche la lirica e la parola usando un grammelot che sinceramente spiazza forse più del clacson de “Il Sorpasso” di Dino Risi. Insomma: “English Aphasia” è un viaggio tra l’assurdo e l’irreale, con i piedi a terra e l’arte creativa a portata di mano. Chi ama Bowie ne sarà fiero…
Dopo l’ascolto di “English Aphasia” mi sorge un dubbio. Cos’è il blues per te? Perché dici di “avere il blues”?
Il blues per me è Robert Johnson, i Led Zeppelin, Captain Beefheart, gli Stones – ma il blues può essere anche una palla insopportabile – un cliché perpetrato all’infinito. Bisogna sempre fare i debiti distinguo. Spero che la mia musica abbia un po’ di blues – talvolta in fase di registrazione un po’ di blues va perduto – faccio di tutto per non perderlo. Forse dico blues anche per propiziarlo.
Questo disco è davvero sorprendente per tante inaspettate soluzioni. Quanto hai lasciato al caso e quanto hai studiato a tavolino sin dalle origini?
Caso e tavolino un po’ si eludono; l’antenna è sempre puntata e il caso non mi sfugge mai quando si mette in mostra. Cerco di abbandonarmi, poi ridestandomi dico: fammi vedere un po’ cosa è stato.
Parliamo anche di questa copertina. Anche lei altera la realtà, non è così?
C’è stato un momento in cui ho studiato la mia faccia attraverso centinaia di foto scattate con iPhoto – un momento durato circa un paio d’anni in realtà – poi quando ho cominciato ad assumere pose troppo artificiose per evitare che si vedesse la pappagòrgia ho smesso. Che dire, quando mi è passata davanti sta foto ho detto subito ecco la copertina del mio prossimo album. La banana mi era stata regalata da mia madre – “Dani, mangiati una bananina a metà pomeriggio – contiene potassio”. E la banana ci porta direttamente alla domanda successiva.
Da qualche parte ho letto che questo è un disco di pop-art. Che mi rispondi?
Se ci penso, il mio immaginario è pieno di pop art – anni sessanta e settanta sono un tripudio di pop art; la copertina di Sgt. Peppers, tanto per fare un esempio. E i manifesti dei tour di Hendrix, Stones, Zeppelin? Dove li mettiamo? Certo anche Andy, Rauschenberg, Schifano e tutto il resto reso icona da scatole, lattine, manifesti e banane comprese. La comunione tra illustrazione e musica era costante. Un’osmosi perfetta. La musica stessa un’icona – contenitore enorme di musiche – le più disparate. Il denominatore comune? Più di uno: creatività, invenzione, comunicazione, idea, originalità, bellezza, futuro, sogno, immagine, business, etc. etc…
Quasi impossibile separare alcune copertine di album famosi e non dalle musiche contenute al loro interno.
E che dire del video? Geniale la trovata… che significato lega (se c’è) la musica con i piedi?
Una musica fatta coi piedi non promette niente di buono, il piede non è certo il soggetto più convenzionale, a parte l’enorme importanza feticista per alcuni, il piede è un altro sguardo, un’altra prospettiva da cui osservare, un mondo da scoprire, non certo un mondo alieno, un mondo nascosto. Quale ri-appropriazione per la nuda pianta dei propri piedini/oni, ritrovare quella bella sensazione di contatto con le superfici tutte, una sensazione anche di libertà no? Una sensazione condivisibile con chiunque non ti pare? I piedi di Battisti erano vestiti ma anche i suoi cercavano un’altra superficie.
E poi il grammelot non poteva passare in secondo piano. Hai mai provato a nascondere il fatto che non siano parole? Se no devi farlo… se si devi dirci che cos’è successo. Insomma: la gente ascolta i testi secondo te?
Scrivo in finto inglese da sempre – volevo farne un album – era da un po’ che ci pensavo. Le parole non le ho mai ascoltate – comincio adesso, a quasi sessant’anni. Non conosco l’inglese, la mia formazione musicale è per la maggior parte avvenuta ascoltando musiche inglesi e americane. Vabbè anche italiane: PFM, Banco, Orme, Battisti, Claudio Rocchi il primo Battiato ed altri. L’interesse era quasi tutto per la musica ma, i dischi dei Genesis uscivano in Italia con i testi tradotti in italiano, un po’ di attenzione, per quanto distratta c’era già allora. La mia libreria oggi è piena di pubblicazioni che traducono in italiano i testi di artisti inglesi/americani. Un ritrovato interesse per i testi? Forse. Voglio saperne di più, dopo averne amato moltissimo la musica non voglio perdermi i testi di Peter Gabriel, con o senza Genesis. La gente ascolta i testi? Si, molti ascoltano/ascoltavano i testi. I miei amici d’infanzia passarono da un entusiasmo sfrenato per i Deep Purple di Burn a un entusiasmo meno sfrenato ma pur sempre entusiastico per De Gregori, Lolli, De André, Guccini. Evidentemente il testo aveva assunto una maggior importanza rispetto alla musica. Per me erano lagne. Oggi sono più indulgente e alcune canzoni le trovo bellissime. Ascoltano anche i testi in inglese? Non ci giurerei. Io ascoltavo il suono: lei – din – rol – kind – col -; enai – ui . gioin – uid – iu.