_ di Riccardo Magni.
_ foto di Nicola Montanari.
Undici canzoni di merda con la pioggia dentro è un disco che lascia il segno, forse il migliore di Giorgio Canali per sua stessa ammissione e forse, il migliore del 2018 in Italia.
Nei sette anni trascorsi da Rojo, una nuova opera era stata attesissima dai fan che hanno continuato ad affollare ogni suo concerto. In questi casi, dopo così tanto tempo, deludere le aspettative con un album non all’altezza dei precedenti è un pericolo reale. Ma non se sei Giorgio Canali: piuttosto di cadere in questa trappola, lui non avrebbe più pubblicato nulla.
Che sia per noi un grandissimo disco è quindi chiaro (qui la nostra recensione). Ma un conto è emozionarsi con le cuffie alle orecchie e dirselo tra amici, un altro è parlarne con Giorgio Canali. Spesso le interviste si cominciano con complimenti e convenevoli, ma mai come stavolta, la sincerità è scoperta da una voce che tradisce l’emozione del fan che dialoga col mito. Un mito umano, passionale, schietto, che ha firmato un pezzo imprescindibile di storia della musica italiana.
Quindi per prima cosa, grazie e complimenti.
Beh me li merito dai, credo sia un gran bel disco. Non lo dico mai, ma penso che sia il migliore che abbia fatto, anche perché dopo sette anni…
Sette anni dall’ultimo album di inediti Rojo. Il blocco, poi i nuovi stimoli.
Guarda che sette anni a pensare di non riuscire a scrivere niente di meglio di quanto hai già scritto sono duri, e magari mi sovrastimo ma sono convinto di aver scritto cose molto belle. Dopo Rojo ero nel panico, credevo di non poter riuscire a fare di più. Poi sono arrivati dei cambiamenti. In un mondo in cui non cambia mai nulla, nonostante cambino le facce, i nomi ed i finti colori ma resta sempre tutto di merda, affrontare dei cambiamenti nella vita che ti toccano interiormente, degli stimoli li crea. Un nuovo amore, nuova casa, nuove situazioni, mi sono ritrovato in una stanza vuota dove montare le mie cose per suonare, ho iniziato e mi sono reso conto le parole venivano una dopo l’altra, quando le ho rimesse in ordine mi sono detto “cazzo! Ci sono riuscito!”. Ed ho stappato una, due, dieci bottiglie!
Perché le undici canzoni hanno la pioggia dentro?
È nata un po’ per gioco, proprio come era successo col mio secondo album da cui poi abbiamo preso il nome Rossofuoco, lì c’era il fuoco come a rappresentare qualcosa che ti arde dentro. Stavolta avevo quella frase dall’ultimo brano di Rojo, Orfani dei cieli: “come se avessimo bisogno di un’altra canzone di merda con la pioggia dentro”. Ho detto si c’è bisogno, facciamola, anzi facciamone dieci, dodici… non sapevo ancora quante sarebbero state ma il titolo c’era ancora prima dei pezzi. La pioggia insomma c’è l’ho voluta infilare anche a calci e martellate. Però appunto, mi ha ispirato, è stata l’idea da cui partire.
Pioggia piena di denuncia sociale, politica, e di tormento per amore.
L’amore è il gesto più politico che esista. Dagli anni ’60 amore e politica coincidono dentro e fuori, è questione di impeti e passioni ed una cosa influenza l’altra. I drammi personali sono minuscoli rispetto ai drammi reali del mondo, ma ci sembrano enormi. Faccio spesso il gioco di paragonare la sfiga degli altri che è atroce rispetto alla sfiga personale che è minuscola, ma è atroce per te. Mettere i propri piccoli drammi al pari dei drammi epocali è prendersi gioco di se stessi, dei propri drammi ed anche di quelli epocali. Ed io credo davvero che si possa scherzare su tutto, anche sulla Soluzione finale e l’ho fatto. È una questione di sensibilità. Poi magari per molti le cose che racconto sono stupide immagini senza senso e va benissimo anche così, mi vanto di fare cose fuori moda.
Come nascono questi pezzi e quanto la band ha influito, se lo ha fatto?
Con i Rossofuoco i pezzi nascono spesso da improvvisazioni di gruppo, ci mettiamo a suonare, troviamo le atmosfere, i suoni, e scegliamo in che direzione andare mettendo il tutto in forma canzone, alla fine si strutturano queste improvvisazioni ed il risultato ci soddisfa.
La scrittura è a posteriori, cioè dopo aver costruito delle canzoni che stiano in piedi da sole, senza melodie ne parole. Per questo disco com’era stato per Nostra signora della dinamite, invece, una metà dei pezzi parte da cose che ho registrato da solo, chitarra e voce o giù di lì, poi ci abbiamo lavorato sopra. Nascono da altre idee musicali. Per dire: l’anno scorso ho scritto la colonna sonora per un film di Rossella Schillaci, Libere, che era un film sulla Resistenza al femminile nell’ultima Guerra, e molte di quelle idee lì sono poi diventate la base per la costruzione delle canzoni. È il caso di Mandate Bostik ed Aria fredda del nord per esempio.
La tua Emilia Parallela oltre alla citazione dei CCCP, raffigura una faccia dell’Italia?
Sono tutti i finti cambiamenti che vediamo ogni giorno, ci diciamo “finalmente qualcosa sta cambiando” e poi se vai a vedere, chi comanda ha sempre la stessa faccia e chi subisce, sempre lo stesso culo. E anche l’Emilia non è poi così diversa da allora: cambia il colore di qualche bandiera, però le teste di cazzo sono sempre uguali, i maiali morti insaccati ci sono ancora, le fabbriche di plastica anche.
Com’è venuta la scelta di Fuochi Supplementari come primo singolo?
Semplicemente ho chiesto ad Enrico Molteni di Tempesta, visto che voleva che uscisse qualcosa prima del disco, di scegliere il singolo. Ha scelto quella, ed a me sembrava abbastanza rappresentativa, sia per come è scritta, molte mie canzoni sono elenchi di immagini, che per il suono di questo rock molto morbido e strano che è quello che mi piace di più. Ce n’erano anche alcune più radiofoniche, una di queste è forse l’unica mia canzone d’amore scritta per qualcuno e non per l’amore in assoluto, poteva essere quella il singolo ma non era il caso: un po’ di pudore ce l’ho.
Non stiamo parlando della bellissima Messaggi a nessuno?
No, quella è il mio esempio tipico di canzoni sull’amore e lo struggimento, perché come dico in questa ed altre canzoni, in effetti la felicità è qualcosa che non ho mai ricercato, stare male è fondamentale per poi stare bene, anche perché se non sto male non riesco a scrivere, quindi ben venga la sofferenza. Messaggi a nessuno non è legata ad una persona in particolare ma è una canzone d’amore sull’amore. È il mio modo di sentire le cose di cuore, quando ti arrivano e ti fanno male.
Mandate Bostik chiude il disco con una disperata richiesta d’aiuto. C’è sempre bisogno dell’appoggio di anime gentili?
La frase viene da un pezzo mai registrato di inizio anni ’80 del Politrio, nessuno l’aveva mai sentita. Chiaro che c’è bisogno, poi se trovi dove appoggiarti lo fai, altrimenti voli giù. Anche la sindrome del volo è una cosa che uso spesso nei pezzi, da Precipito in poi, la caduta libera è una cosa che è sempre lì in agguato.
Qualcuno obietterà che sono messaggi senza speranza…
In effetti di speranze ce ne sono pochine nelle mie parole spesso e volentieri, ma io non sono un ottimista di natura come può essere ad esempio Lorenzo Cherubini (Jovanotti), che invidio moltissimo, perché riesce ad essere ottimista in un modo talmente naturale che chi dice che sia ipocrita è un coglione!
Non sarà gioioso ma è comunque un momento di riflessione. La musica non deve per forza essere allegra per fare bene.
Chiaro, e spero esista sempre qualcuno che non faccia canzoni solo per far ballare la gente e battere le mani a tempo. C’è stato un periodo in Italia in cui i cantautori, se non avevano un pugnale nel cuore, non funzionavano. Adesso questa cosa sembra quasi vietata, anche se devo dire che già quando arrivò Vasco Brondi, quella vena cantautorale “da vene tagliate” l’ha rispolverata.
Avete già fatto dei live, in particolare, la presentazione a Bologna. Come ha recepito il pubblico quest’album, che impressioni hai avuto?
Ottime, l’album era uscito la mattina stessa e c’era pochissima gente che conosceva i pezzi ma le facce erano comunque tutte radiose e raggianti, quindi credo che il disco sia recepito bene e che nei prossimi concerti sempre più gente conoscerà i pezzi nuovi e proverà a cantarli, ma siccome io sposto tutte le parole a posta, non riuscirà a cantarle con me!
Ricordo anche una scena al Monk di Roma, quando a un certo punto si è alzato un accendino. Non la prendesti benissimo…
Si è vero, di solito mi incazzo ma dato che canto “accendi un fuoco” stavolta li voglio gli accendini, visto che tanto partono lo stesso, stavolta li voglio!
Cosa cambia in quello che ti restituisce il pubblico, man mano che vanno avanti i live?
Cambia che la gente arriva e conosce le canzoni e man mano è come se le conoscesse da sempre e non siano nuove, va così. Però diciamo che il nostro pubblico è di quello che viene perché davvero ha voglia di vedere qualcosa di diverso, non perché va solo a vedere un concerto qualsiasi, almeno per la maggior parte. È un pubblico molto fedele e me lo aspetto che conosca bene i pezzi, e che esulti una volta che partono.
Suonerete sempre tutto l’album nei concerti?
SI, per la prima volta da Precipito, che avevamo suonato per intero, anche stavolta a differenza di sempre, che inserivamo non più di sei o sette pezzi, ci siamo forzati a metterli tutti, senza togliere quelli che magari ci vengono un po’ male e sarebbe stato anche comodo togliere. Invece no, li facciamo tutti perché è giusto così e non solo perché credo che sia il disco più bello, ma anche perché finalmente abbiamo una scaletta diversa e di quei pezzi che abbiamo suonato in questi sette anni, ne facciamo pochi, anche alcuni più vecchi li abbiamo sostituiti. Del resto abbiamo un repertorio vastissimo ormai, sono più di ottanta pezzi, c’è da dove attingere.
Ed ora, i fan non potranno più romperti le scatole su quando esce il disco nuovo…
Infatti! Anche se in realtà io spero arrivi presto questa volta un nuovo disco, visto che siamo andati così bene: siamo stati veramente veloci da quando ho iniziato a scrivere, e io sto continuando a farlo quindi spero davvero di riuscire a non far passare troppo tempo da qui al prossimo disco, anche se adesso, questo album per un po’ deve lavorare!
Hai anche qualcosa che è rimasto fuori dal disco?
No, semplicemente qualcosa che è arrivato dopo. La lavorazione del disco è andata davvero molto veloce, arrivato a quota undici pezzi, ed Undici si chiama così proprio perché è stato l’ultimo in ordine di arrivo, ho detto “perfetto, album finito” ed eravamo tutti d’accordo che andasse bene così, bastava solo chiuderlo, mixarlo, masterizzare e via.