– di Manuela Poidomani –
Yuman, classe 1995, nasce a Roma da padre capoverdiano e mamma romana. Nel 2015 si trasferisce prima a Londra, poi a Berlino, per intraprendere un percorso artistico e umano. Dopo il ritorno a Roma firma per Leave Music (licenza Polydor/Universal Music Italia) nel 2017 e inizia a lavorare insieme a Francesco Cataldo, che svolge il ruolo di produttore artistico. A novembre 2018 pubblica il primo singolo ufficiale, intitolato “Twelve” e mixato da Chris Lord Alle (Green Day, Muse, Joe Cocker, My Chemical Romance, Paramore, Caparezza…); il singolo entra in rotazione radiofonica ed entra in diverse playlist.
Il suo disco d’esordio arriva nel 2019 e s’intitola “Naked Thoughts”: sguercerà un tour che lo porta anche in Germania, ospitato dal Die Pierre M. Krause Show del network nazionale SWR3. Nominato artista del mese da MTV, YouTube lo inserisce tra i dieci artisti più promettenti del 2019 ed è tra i pochi artisti italiani selezionati per il festival South by Southwest di Austin (Texas).
Nel 2021 pubblica il nuovo singolo “I Am”, trasmesso sia in Italia che all’estero. A dicembre dello stesso anno vince la finale di Sanremo Giovani con il brano “Mille notti”, entrando così a far parte dei venticinque artisti destinati a esibirsi sul palco dell’Ariston come concorrenti del settantaduesimo Festival di Sanremo, portando in gara il brano “Ora e qui”: come già accaduto nel 2019 (e precedentemente nel 2004), infatti, in quest’edizione del Festival tutti i brani sono in gara in un’unica categoria, senza distinzione tra Campioni e Nuove Proposte.
Ecco che cosa ci ha raccontato!
Partiamo subito dalla tua esperienza a Sanremo. Ti saresti mai aspettato di gareggiare con dei mostri sacri della musica italiana come Elisa, Gianni Morandi o anche Mahmood?
Guarda, se me lo avessi chiesto anche solo sette mesi fa non ci avrei mai creduto, nemmeno per un attimo. È stato inaspettato, è arrivato all’improvviso e io mi sono fatto trovare pronto. Ho raccolto tutto quello che potevo, mi sono chiuso a scrivere un disco nuovo; non ci aspettavamo di vincere a Sanremo Giovani, figurati di essere in gara tra i “big”!
La prima serata sei sceso da quelle scalinate: l’emozione che si percepisce da casa sarà un quinto di quella percepita dal vivo, no?
Si assolutamente: quei tre minuti durano un’intera giornata.
La mia percezione è stata quella di un ragazzo di ventisei anni che, pur apparendo introverso, vestiva di un’eleganza sopraffina. Sei entrato dopo Achille Lauro, per certi versi ad aprire la kermesse sono stati due opposti e questa differenza è saltata subito all’occhio.
Esatto! Durante la performance di Achille Lauro io aspettavo di entrare, dietro, e – ti giuro! – mi sono perso.
La terza serata sei sembrato più sciolto. La tua timidezza può collegarsi, oltre al alla trepidazione dovuta all’atmosfera, al fatto che era una delle prime volte che ti raccontavi in lingua italiana?
Assolutamente sì. Era la mia seconda volta. Quando ti esprimi sei sempre in cerca di conferme: vuoi sapere se i testi piacciono, se il modo in cui ti rappresenti ha dei risvolti positivi. Non è facile “conquistare” il pubblico, primo destinatario delle canzoni. La maggior parte degli ascoltatori non fa musica, quindi si devono ritrovare nella melodia e nelle parole: non servono tropi tecnicismi.
Forse è questo il motivo per cui gli artisti spesso portano in gara pezzi “sanremesi”?
Sì, anche se nel periodo attuale questo termine è un po’ più difficile da definire. C’è da dire che negli ultimi anni hanno vinto canzoni “non convenzionali”. Noi ci volevamo semplicemente mettere tanto cuore, un’esplosione di sensazioni, qualcosa che suonasse sincero.
Nella tua musica alterni italiano e inglese. In passato artisti che hanno calcato il palco dell’Ariston come Elisa e Wrongonyou cantavano in inglese, una lingua diversa dalla propria lingua madre. Riscontrando, peraltro, meno successo di quando sono passati all’italiano. Che cosa pensi di questa differenza tra l’uso dell’inglese e dell’italiano per i testi? Cantare in un’altra lingua porta a essere meno compresi?
La lingua inglese è limitante. Accettiamo la musica straniera, ma se è fatta in Italia non viene considerata allo stesso modo, per qualche motivo. Cantiamo canzoni in inglese ma molto spesso non sappiamo il significato delle parole. Ho sempre pensato, da sognatore, che qualcuno s’interessasse ai miei brani al punto da leggere anche i testi.
«Guarda là fuori, lo so che hai paura» (da “Ora e qui”): che cosa ti fa paura?
Penso che ci facciamo troppi problemi e che facciamo troppi progetti, anche nel mondo musicale. Si ha sempre paura di non convincere, di non fare la cosa giusta, di non riuscire a muoversi nel mercato come dovrebbe, tutti paletti che un tempo magari non c’erano neanche. Camminiamo su un filo sottilissimo: oggi c’è, domani si spezza. O viceversa. È tutto così incerto…
«Mai ho perso la speranza in un giorno migliore» (da “Mai”) è una frase che sembra calzare a pennello con quello che sta accadendo nel mondo. Come possiamo non perdere la speranza?
Viviamoci la giornata finché possiamo. Noi siamo super fortunati, dobbiamo ricordarci di ringraziare sempre e di essere umili.
“Mille notti” è un brano di una delicatezza immensa: chi è la persona in cui vorresti ancora credere a cui fai riferimento?
È una lettera che ho scritto a mio padre, con cui ho un rapporto particolare. Non parliamo tanto. Con la canzone ho trovato un dialogo migliore e ho detto cose che forse non sarei mai riuscito a dirgli, a voce.
Hai lavorato moltissimo all’estero. Pensi che ciò che sei oggi sia merito anche delle tue esperienze a Londra e a Berlino?
Se riesci a trovare il bello in ciò che ti circonda qualsiasi cosa ti forma. Non c’è bisogno per forza di partire, per trovare se stessi, non bisogna sempre viaggiare e spostarsi. Soprattutto non per forza bisogna farlo fisicamente. Tuttavia qualsiasi viaggio ti può arricchire e dare qualcosa in più, che chi non ha viaggiato non avrà.
Che cosa possono offrire queste città rispetto all’Italia? C’è qualcosa che manca, da noi?
Sì. La musica, lì, è considerata un lavoro. Qui è vista alla stregua di un hobby. Se sei un artista emergente lì ti danno un sussidio, perché si considera che l’arte è un mondo difficile e che non è automatico che inizi e subito sbanchi, come non è neanche detto che lo farai, anche dopo una vita. La gente che popola Londra, poi, viene da tutto il mondo: le persone che ho incontrato giravano e volevano vedere la stessa cosa che volevo vedere io, cioè se fosse vero che la musica lì è come una religione e come veniva vissuta. Sembra davvero che si possa vivere di pane e musica, anche se è una città costosissima; ma comunque un musicista guadagna circa duecento sterline per una serata, cioè quasi duecentocinquanta euro. In Italia non è così, naturalmente.
«Ora e qui, finalmente io riesco a dire che sto bene» (di nuovo da “Ora e qui”): ti senti, anche solo un pochino, realizzato?
La felicità è una cosa labile, si raggiunge in un secondo e per un secondo. Manca sempre la soddisfazione perché uno punta a fare di più e questa sarà eterna, è una battaglia. Forse è meglio non sentirci all’altezza, almeno siamo spronati a fare di più.
Dopo il Festival è arrivato l’EP: “Qui”, il presente, l’attimo. Cosa ti attende, adesso?
Per adesso soprattutto mi attendono delle bellissime date: il 5 marzo all’Auditorium Parco della Musica di Roma e il 5 aprile al Tunnel Club di Milano. Stiamo anche lavorando a dei nuovi singoli: bisogna sempre martellare e non fermarsi mai!
Che cosa ci dobbiamo aspettare da queste date?
Si balla, ci si diverte, si fa casino!