– di Riccardo De Stefano –
Xavier Pompelmo non esiste. O forse sì, chissà. Certo c’è Davide Bastolla, che prima faceva il videomaker e ora canta. C’è quel vecchio Xavier Pompelmo che qualche anno fa aveva attirato la nostra attenzione con le sue geniali cover dell’indie. Quello che moriva dopo ogni canzone. Forse ci sono tutti e forse nessuno.
Davide è un videomaker di talento (suoi alcuni video di Giancane e Kutso, tra gli altri), ma anche musicista e produttore. Dopo un inizio, come Xavier Pompelmo, con le cover di Cosmo, Motta e compagnia cantante, il 2 novembre 2018 esce “Nebulosa”, primo singolo che anticipa “Valanghe”, primo album solista.
Chi sia o meno Xavier Pompelmo forse importa poco. Sta di fatto che il suo primo lavoro, “Valanghe”, è stato pubblicato a novembre del 2019 e il disco ci fa vedere come si possa scrivere, cantare e far suonare bene il pop senza essere per forza di cose melensi, banali e ripetitivi.
Incontro Xavier, o forse Davide, a Monteverde, a Roma e parliamo a lungo di malessere, canzoni, successo e pop. Ecco un riassunto di quello che ci siamo detti.
Xavier Pompelmo, nome d’arte di Davide Bastolla. Usare un altro nome perché? Per nascondersi?
No, è che ogni cosa ha il suo posto: per una questione di ordine ogni progetto ha un suo nome.
Vista la tua carriera come videomaker, anche per evitare conflitti di interessi?
Inizialmente non volevo ancora espormi a livello musicale perché sentivo l’esigenza di iniziare a dare delle briciole, ma non avevo il coraggio ancora di tirare fuori la faccia. L’operazione era necessaria per creare da zero una pagina e quindi avere dei follower, così già da iniziare ad avere un minimo di bacino di utenza, un beta test di quello che sarebbe poi successo con i pezzi miei.
Ancora oggi le cover vanno molto forte in un circuito di nicchia, penso al Cantautore Misterioso o Asia Ghergo, che ne hanno fatto la propria cifra distintiva. Tu hai aperto la strada delle cover, poi però li hai tolti i brani.
Li ho tolti in un momento preciso perché non volevo distrarre prima della uscita di Nebulosa, 2 novembre. Io sono affezionato alle cover e ci sto in fissa, mi piacciono più degli originali, ma non volevo distraessero dal progetto originale. Forse è stato fallimentare e ho creato “caciara”, la gente si è affezionata alle cover più che al disco, finita quella cosa là, la gente è rimasta spaesata, sono passati anni dall’inizio di Nebulosa. Se subito dopo le cover avessi fatto uscire il mio materiale sarebbe stato meglio.
E come mai è passato tanto tempo?
Ho calcolato male i tempi. Avevo già dei brani pronti ma stavo imparando a produrre, e il mio stile era completamente diverso dalle cover. E mi stavo anche rompendo, volevo concentrarmi sul mio materiale.
C’è un salto netto dal suono country folk degli esordi a Valanghe, fortemente elettronico.
Nel mio plan non ho calcolato nulla, ero appassionato di elettronica ma non volevo disperder energie di cover come musica elettronica. Nasco chitarrista e ce ne sono poche nel disco, volendo fare le cover volevo divertirmi come chitarrista, sapendo che non sarebbero state presenti.
Hai detto di aver imparato a fare il produttore. Era una necessità artistica o umana autoprodurti il disco?
Sicuramente artistica. Pensare di essere un direttore d’orchestra non mi segregava nel mero chitarrismo e mi dava la possibilità di scegliere dei suoni. Ho nel cassetto un disco di musica elettronica iper aggressive che non uscirà mai. Volevo suoni diversi dalla chitarra e devi giocartela da solo, ogni produttore ha la sua idea e io avevo la mia idea molto precisa.
Hai avuto modo di interagire con altri produttori?
All’inizio con Andrea La Scala, il mio supervisore artistico, che mi ha dato gli strumenti per lavorarci. Nella ricerca del suono giusto e nelle necessità di tempo sono andato da solo. Ho collaborato con Drugo, produttore delle Bestie Rare, di drum’n’bass da cui ho imparato molto.
Il tuo disco si orienta sul pop elettronico. Negli ultimi anni il novo pop italiano è sempre in minore, introflesso. Ti sei accodato a questo genere secondo te?
C’è stato uno sviluppo nella mia musica. Ho riscoperto il pop, quello americano, come Coldplay, ha cambiato il mio ascolto. Oggi mi è difficile chiudermi su un concept album, o seguire i tempi degli artisti, ho spostato l’attenzione sui ritmi dell’ascoltatore, non mi sento roba troppo lenta e immersiva. Ogni progetto deve essere collegato ai ritmi del mondo.
La differenza tra valanghe e il resto del pop è quella dell’esasperazione del pop italiano del ritornello, della nota melodica. Il tuo lavoro è concentrato nella ricerca del suono e del flow delle parole. Vengono però dopo i testi?
A momenti, all’inizio sì: vorace della produzione partivo dai suoni, il suono ricordava un’atmosfera, l’atmosfera un sentimento e il sentimento una parola. La parola è la parte finale, e ci ho messo molto tempo, anche buttando molto materiale. Fino ad arrivare alla giusta rappresentazione degli stati emotivi. Ho lavorato per step.
So che il disco doveva chiamarsi Nebulosa all’inizio, come il primo singolo. Quell’approccio country delle cover è rimasto nel brano non a caso, allora.
La prima versione di Nebulosa era completamente elettronica, perfettamente itpop. La sentivo e notavo la differenza, la trovavo una paraculata. Il testo parlava di alcune cose e a parte un suono il resto era fuffa. L’ho rifatta completamente, con caratteristiche acustiche dal periodo delle cover. Cercavo uno stile più americano nella produzione.
Alcuni temi ritornano nel disco: quello della famiglia, la figura della madre, l’esser figlio. Cosa hai cercato di raccontare?
Quel tema è ricorrente, quando scrivi canzoni lo fai in un periodo concentrato, l’arco di uno o due anni, e quello che vivi è quello. La mia vita va in loop e alcuni temi tornano. Sono in un’età in cui si acquista consapevolezza, sono negli anni in cui voglio capire tutto per rapportarmi alle cose in maniera più equilibrata, in Valanghe rifletto su diverse cose, i rapporti, la devozione verso quello che fai e vivi, e che magari dai per scontato. Ho capito che era importante capire e decidere le cose.
Cosa speri che il pubblico trovi nel tuo linguaggio?
Vorrei che Valanghe, che ha avuto un ruolo di catarsi e di accettazione degli stati d’animo, permettesse all’ascoltatore di riconoscersi in quelle sensazioni e permettesse il capire il processo. Che rassicurasse l’ascoltare. Non è il triste malinconico, cioè lo è, ma bisogna celebrare la tristezza nella maniera giusta. Il pop triste deve esserlo veramente. Oggi invece nel pop c’è una tristezza finta, che fa figo: allora preferisco il nonsense, i pop X, Young Signorino.
Ti senti malinconico?
Sì, lo sono, non sono mai felice appieno, faccio fatica. Il mio idolo è Jovanotti: per quanto non mi ascolti il genere, il personaggio è perfetto, è un “presabbene” che vive di positività, e quando fa un pezzo malinconico si capisce che è positivo e sentimentale.
Dov’è tra un anno Xavier Pompelmo?
Non ne ho idea. Sto seguendo il flow, se ci penso ho l’ansia e mi viene da buttarmi nel Tevere. Però sono un inguaribile romantico, e ci spero sempre un po’.