– di Naomi Roccamo –
Dopo aver assistito a un numero di concerti considerato “accettabile” so finalmente riuscire a distinguere chi si limita a trasporre live la propria discografia come se fra uno studio di registrazione e delle persone in carne e ossa non ci fosse nessuna differenza e chi sa costruire uno show. Ho piacevolmente scoperto che Willie Peyote fa parte di quest’ultima categoria.
Il 30 giugno, il palco mignon dell’Ippodromo delle Capannelle (quello con gli spalti di cui usufruiscono i genitori più pazienti e giusti quando accompagnano i figli ai concerti, per intenderci) nel pieno della stagione di Rock In Roma, ha avuto come protagonista l’artista sabaudo, piazzato temporalmente fra il rock degli Skunk Anansie il giorno prima e il rap di Ernia del giorno dopo.
Sceglie di darci il benvenuto con una scelta già emblematica, cioè “Fare Schifo” (senza farsi accompagnare dalla Giraud).
“Ciao a tuttE e a tuttI. Aspettavo questo tour da due anni.” In effetti si tratta della combo di “Iodegradabile” e “Pornostalgia”, ultimo disco uscito lo scorso maggio e non tutti sono bravi a veicolare lo stesso messaggio per due progetti diversi, a rimanere coerenti creando un discorso unico e valido per entrambi.
Abituata come sono al suo personaggio onesto e cinico non mi aspettavo forse tanta cura che poi è bravura nel rimanere fedele a se stesso ma con una sorta di stile: dagli innumerevoli gin tonic fatti portare sul palco, al sarcasmo timido ma efficace per introdurre le canzoni, era tutto lì.
“Willie Pooh” arriva prestissimo, a differenza delle altre storiche tratte da “Sindrome di Toret” e “Educazione Sabauda”. Emanuela Fanelli (lei per fortuna c’era) ci viene a ricordare che “la felicità non è mai un furto, piuttosto è un bel risarcimento”. Ogni brano che decide di cantare non fa che alimentare una già consolidata consapevolezza non solo artistica ma soprattutto idealistica.
Geniale poi l’accenno di “Do I Wanna Know” degli Arctic Monkeys per far partire “I Cani”, così come la citazione a Mac Miller, una sua dichiarazione d’amore.
C’è spazio infatti per i suoi prediletti, per i suoi racconti fondamentali, come quello prima di “Sempre lo stesso film”, citazione del racconto per antonomasia della sua Torino e omaggio a Libero di Rienzo, attore ma in primis suo caro amico scomparso un anno fa, insieme a tutti quelli che han fatto prevalere il coraggio sul talento.
È il coraggio la linea guida di questa serata, il coraggio di essere consapevoli e spudorati, di dare tutto sul palco, come “Mango”.
Alla fine se un concerto non è spudoratamente personale che concerto è?