– di Roberto Callipari –
Il 23 febbraio è uscito il nuovo album dei Voina, Kintsugi, un nuovo viaggio nell’universo della band abruzzese fra i conflitti del crescere e dello stare al mondo. Raggiungiamo il cantante della band di Lanciano, Ivo Bucci, per farci raccontare il disco e cosa significhi, ad oggi, far parte di una band.
Perché questo titolo?
È un titolo scelto in corso d’opera, quindi non siamo partiti con quell’idea, ma a un certo punto che ci siamo resi conto che ci rappresentava. Dopo dieci anni insieme come band, anche se in realtà sono di più, ci siamo trovati con alle spalle veramente di tutto, dalle crisi che può avere normalmente una formazione al COVID, alle crisi del semplice crescere, ma nonostante tutto siamo sempre andati avanti, ci siamo sempre rincollati l’uno all’altro, magari non con l’oro eh, ma il concept ci sembrava giusto.
Si percepisce molta disperazione e molta noia anche in questo disco, come successo in passato, ma in una forma diversa.
Sicuramente gli stilemi del mio scrivere sono sempre quelli, perché alla fine, come diceva bene Tenco, quando si è felici si esce. Le tematiche erano quelle e restano quelle per motivi fra i più vari, banalmente il fatto di venire da un certo tipo di ascolti influenza inevitabilmente la scrittura, ma spero si noti comunque una differenza rispetto al passato dei Voina, visto che anche come persone siamo cresciuti, e le nostre intenzioni e i nostri interessi sono cambiati.
Credo che, nell’economia di questo discorso, un pezzo come Supermercati cinesi, contenuto in Kintsugi, sia abbastanza esemplificativo, perché non è solo un semplice testo di mitizzazione del dolore, ma l’espressione di qualcosa che è contingente, che è presente e nella realtà crea un problema.
Penso che in questo disco, forse più di tutti quelli che abbiamo scritto, c’è stato uno sguardo verso l’esterno, non direi un disco politico… però pensiamo ad esempio a Bianco, che è la mia percezione della realtà in cui noi uomini bianchi dobbiamo renderci consapevoli dello spazio che abbiamo occupato e che continuiamo a occupare in quanto privilegiati: non potevo passarci sopra. Diciamo che sì, è un disco più attento e consapevole di ciò che succede nel mondo e come impatta su di noi.
Cambiano i titoli dei dischi, ma i Voina sono sempre i Voina: esiste un vademecum della coerenza che seguite?
C’è sempre una diatriba fra le band che portano il vessillo della coerenza, dicendo magari sempre le stesse cose, mentre dall’altra parte ci stanno le band che per giustificare alcuni tentativi bislacchi di provare a diventare famose si nascondono dietro evoluzioni senza senso. Penso che l’unico punto su cui difficilmente ci si possa dire qualcosa è la sincerità. Anche noi siamo passati attraverso dischi di cambiamento, perché sentivamo che la formula che usavamo era satura. Con questo disco, dopo esperimenti e ricerche anche fallimentari, abbiamo deciso di ripartire dalle origini, di ritrovare noi stessi in uno spazio nuovo, riconsiderando tutto dalla base e, addirittura, costruendo una sala prove, prima di tutto.
Cosa pensi che sia cambiato dall’inizio del vostro percorso?
C’è tanto di diverso, dentro e fuori. Dentro siamo cambiati noi: dieci anni fa eravamo altre persone (per dire: io sono sposato e ho una figlia); fuori è cambiato tanto: quando abbiamo iniziato c’era una seria scena indie molto più legata al concetto di indipendente, poi è arrivata tutta la scena itpop, dove la gente ti diceva che con due pezzi buoni diventavi famoso e ricco, e abbiamo passato un momento assurdo e difficile, soprattutto per gente come noi che faceva musica pestata. Fuori un bordello, dentro un bordello uguale, per tutto ciò che è la vita… È cambiato tutto, so’ rimaste solo le chitarre.
Parlando di musica pestata: pensi che ci sia ancora spazio per le band di un certo tipo in Italia?
Secondo me la risposta è complessa perché, se pensi anche all’exploit di Ghemon su Instagram, se pensi anche a noi Voina, veramente c’è stata l’affermazione di un’idea di musica (passando anche per l’affermazione di Spotify), che ha reso difficile non solo il discorso band, ma l’idea stessa della carriera musicale. Pensare che l’ottanta per cento degli artisti presenti su Spotify non arrivano a mille ascolti, secondo me dimostra proprio il fatto che è diventato un grosso enorme specchietto per le allodole del capitalismo, a partire dal quale credi che mettendo un pezzo sulle piattaforme diventi ricco e famoso, e drogando l’ego delle persone e il mercato rendendolo ridicolo; e al tempo stesso tu, che hai speso trenta euro per mettere un pezzo registrato male in cameretta su Spotify, sei parte del problema, perché stai mettendo benzina dentro questo mondo folle. Consideriamo poi anche il fatto che, proprio per il meccanismo degli algoritmi, tendiamo tutti ad ascoltare solo ciò che già sappiamo che ascolteremmo, quando si parla di qualcosa di nuovo. È proprio un discorso quasi di morte della musica. Chi è che adesso può, in questo mare magnum di migliaia di artisti e di progetti, uscire fuori? Non quello con più qualità, ma chi riesce ad entrare in una playlist editoriale, spesso a causa di un maggiore potere economico. Da questo punto di vista diventa una rincorsa folle degli artisti alle playlist, cominciando a scrivere pezzi ad hoc per entrarci. Io, nella sfortuna di essere passato in questo tritacarne, mi sento fortunato perché ho una band con un seguito che mi permette di fare questo divertendomi, sapendo che il mio disco verrà ascoltato, ma riconosco la follia a cui deve sottostare chi inizia ora.
Quant’è importante Lanciano nel progetto Voina?
Tantissimo. Lanciano in sé, per me, rappresenta il contesto di vita che ho scelto. Io ho studiato a Bologna, sono stato sei anni fuori, e avrei potuto scegliere di essere ovunque, invece ho deciso di tornare a casa, perché è un contesto che mi consente di avere una vita serena. Per me Lanciano è lo scontro adolescenziale di quando vuoi scappare, scappare dalla provincia, ma non fuggi mai veramente, ed è una roba che ho capito abbastanza presto. Spesso c’era anche del manierismo nel dire che Lanciano è una merda: Lanciano è Lanciano, ha la sua dimensione, ma a me piace proprio per quello, per quel senso di familiarità che mi trasmette, e nella storia dei Voina c’è tanto, sia nell’orgoglio che nell’odio. Questa è casa mia.
Ma ti fa ancora schifo il jazz?
Ecco, lo sapevo, tu mi dici che sono invecchiato [ridiamo, nda]. Nì, nel senso che ti capita di fare cene con amici e parti con lo shuffle e ovviamente parti con robe soul per stare tranquillo con le persone. Ma in realtà, quello che rappresenta quella canzone era la paura di crescere, anche e soprattutto dopo un’adolescenza bella, direi. Io sono il più grande spaventato dal crescere e ho trentasei anni, ciclicamente ho delle crisi legate a questa roba. Il jazz era la rappresentazione del timore di crescere e trovare una realtà di merda, dove tutto era una merda, perché il jazz è proprio una roba da vecchi, da vecchi che non vuoi diventare perché ti sembrano degli stronzi, anche se poi ti rendi conto che non sono così stronzi… È più questa la presa di coscienza. Comunque diventare vecchi ha il suo perché: quando trovi il tuo appoggio con te stesso, un accordo, è una pace, perché la parte leggera di te la porti dietro, coltivi uno spazio per la follia, ma crescere è anche bello.
Sei cantante dei Voina, ma anche papà e insegnante: come convivono tutte queste anime?
Sembra brutto da dire e non vorrei essere frainteso ma, forse, c’è un sottotesto di vanità. Tanto nella musica quanto a scuola si è su un palco, un palco dal quale si cerca affermazione e considerazione, che poi è ciò che tutti, in quanto persone, cerchiamo dalle persone. Il lato dello sfogo, dell’energia più “violenta” lo teniamo solo per la musica, anche perché quando sei papà o insegnante l’energia non può essere rilasciata allo stesso modo. Ma forse sì, la vanità accomuna tutto.
Kintsugi è il quarto album in studio dei Voina, band di Lanciano che dell’indie ha il vero spirito, la vera attitudine. Il nuovo disco esce il 23 febbraio per V4V, e rappresenta un viaggio in nove tracce di esplorazione della complessità dell’umano nella realtà presente, le sue mille sfaccettature, le sue rotture e le sue capacità di recupero.