Ho deciso di scrivere questo report in questa maniera perché è l’unico modo che ho per farlo. Perché è il modo più onesto che conosco, ma anche perché un festival non si esaurisce soltanto in quello che accade sul palco, ma soprattutto in quello che si consuma prima, durante e dopo il suo svolgimento. Un festival è un viaggio, non fosse altro che serve un viaggio per arrivarci. Ed è quello che abbiamo intrapreso noi.
La storia che sto per raccontarvi riguarda l’avventura più sfigata, sconclusionata e imprevedibile che abbia mai vissuto. Una sfortunata serie di eventi, ma senza nessun conte Olaf nei paraggi. E come ogni racconto che si rispetti inizia con un imprevisto, un avvenimento apparentemente innocuo ma che nella sua intrinseca natura diventa foriero di funesti presagi.
È la mattina del 31 agosto e io, bello pimpante, mi appresto ad uscire di casa per fare rotta verso Treviso. Home Festival. Bloody Beetroots, Justice, Duran Duran e Liam Gallagher live, insieme a tantissimi altri. Sono eccitatissimo. La macchina che useremo per viaggiare è una Opel Adam del 2015, altresì nota come la-macchina-de-mi-madre. Non ha mai dato problemi e per di più è a gas, il che significa che risparmieremo una cifra che si aggira intorno a na-cifra-di-soldi. Sono carico come una molla e monto in macchina ansioso di caricare i miei compagni di viaggio e di imboccare quel mefistofelico corridoio nazionale ai più noto come A-14. Accendo, metto la prima parto. Cinque metri. Cinque fottutissimi metri. È questa la distanza che riesco a coprire prima di dovermi fermare. C’è qualcosa che non va. Decisamente. Ebbene, signori, dopo 4 anni di onorata patente, innumerevolimila miglia percorse, viaggi della speranza e tempi di percorrenza record sulla Roma-Pescara si manifesta un’eventualità che fino ad allora non si era mai palesata, proprio lì, nella campagna abruzzese, alla primissima vigilia di un viaggio di 6 ore alla volta di territori oscuri e sconosciuti, il profondo nord.
La gomma sinistra posteriore è bucata. A terra, sgonfia, finita, bruciata. Il colmo. Mentre scrivo non riesco ancora a riprendermi dallo shock ma nel giro di dure ore riesco a sistemare tutto. Morale della favola: partenza spostata dalle 8 del mattino alle 11 e mezza. Quando li passo a prendere, Nicola e Emanuele, i miei secondi ufficiali, mi informano di avvertire delle vibrazioni negative aggirarsi nei dintorni dell’abitacolo. Non a caso, appena siamo pronti per partire avvertiamo un tonfo alle nostre spalle e ci rendiamo conto che la macchina fotografica, indegnamente dimenticata sopra al tetto dell’auto, è rotolata giù come un sasso, accoppiandosi con l’asfalto. Sul tetto avevamo dimenticato anche un barattolo di creatina energizzante da palestra che per più di metà del viaggio i miei simpatici amici mi hanno spacciato per essere oppio giapponese di primissima qualità.
Insomma partiamo e nel giro di 8 ore arriviamo a Treviso. Non starò qui a raccontarvi il sapore della piadina alla salsiccia consumata bucolicamente a un chioschetto fuori dall’autostrada sotto il sole di Riccione, né le due ore e passa di fila a Bologna. Il morale della favola è che eravamo lì, a Treviso, indenni, e che il peggio sembrava finalmente passato. Ritiriamo gli accrediti e montiamo la tenda al campeggio (15 euro a persona a notte, ripeto 15) e quando oltrepassiamo i cancelli del festival ci ritroviamo immersi in una spianata di terra invasa da stand e tendoni circensi che ricordano la scenografia dello Sziget Festival, con cui l’Home, tra l’altro, è gemellato. Andiamo a sentire i Soulwax e ci divertiamo come pazzi. I nostri eroi sono vestiti da ammiragli della Love Boat e picchiano su una quantità di apparecchiature elettroniche decisamente spropositata.
Eppure, duole dirlo, la gente è decisamente poca. Probabilmente è il tempo , ma di certo viene da domandarsi il perché dell’organizzazione della scaletta, con nomi così importanti piazzati nel mezzo della settimana, in tempi di ferie già belle che andate. Probabilmente la ragione è da ricercare nelle vicissitudini da tournée degli artisti in ballo e nel fatto che la portata artistica dell’Home Festival, quest’anno, ha fatto dieci passi in avanti. Eppure non si può negare che questa, forse, è l’edizione più controversa del festival, segnata da polemiche e disguidi in alcuni casi innocenti, in altri meno. La questione dei token, fino al day 1, è stata la più sentita: per la prima volta nella sua storia l’Home ha adottato il sistema dei gettoni per le consumazioni, anche se proponendone una versione inedita. I token, infatti, erano giornalieri, spendibili soltanto durante la serata dell’acquisto e poi rimborsabili alla fine dei concerti, con la conseguenza di dover fare due file interminabili al posto di una. Il senso di questa scelta non è facilmente intuibile e di certo non l’hanno capito i molti che hanno protestato sui social. Ma la vera polemica è quella che nascerà a breve. Procediamo con calma.
I Bloody Beetroots infuocano il main stage e sono capaci di farmi perdere il portafoglio nella ressa. A fine concerto mi renderò conto che non era un innocuo smarrimento, ma che nel pogo c’era qualcuno che non era interessato soltanto alla musica. Quando la folla scema, sono una ventina i malcapitati che cercano invano cellulari e effetti personali vari. Miracolosamente un ragazzo mi riconsegna il portafoglio e adesso sono un uomo con cinquanta euro in meno. Ma fa niente, andiamoci a spaccare coi Pop X. Il tempo di pronunciare questa frase e ce ne andiamo dal concerto dei Pop X. Non starò qui a sindacare sul successo di questi ragazzi. Fatto sta che il fenomeno Pop X è un fenomeno scialbo, internettiano, un’elevazione del troll a opera d’arte che lascia il tempo che trova. Il tentativo estremo della pop art di elevare ad arte tutto quello che non lo è, in questo caso non funziona, perché a mancare, di fondo, è una riflessione. Il punto è: dove volete arrivare? Cosa volete dire? Perché si dovrebbe pagare un biglietto semplicemente per vedere dei tizi che si divertono e fanno gli scemi, al posto di divertirsi in proprio e fare gli scemi con i propri amici? Il cielo stellato sopra di me, la critica musicale dentro di me.
Clap Clap invece si conferma uno dei producer elettronici più interessanti della scena e si presenta sul palco con ben due batterie a supporto dei suoi groove tribali. Gli after danzerecci a suon di djset vanno alla stragrande e tirano avanti fino alle 3 e rotte del mattino. Ma il bello, amici miei, deve ancora arrivare.
Giovanni Flamini