La via era stata tracciata, aspettavamo solo di vederla coi nostri occhi: i C’mon Tigre al Monk di Roma sono uno spettacolo.
– di Roberto Callipari
foto di Giorgia Bronzini –
Il 7 marzo siamo andati al concerto dei C’mon Tigre al Monk di Roma, che arrivano su uno dei palchi più importanti della capitale in occasione del loro Habitat Club Tour, durante il quale portano in giro per tutto lo stivale il loro ultimo album, Habitat.
Il live della band è qualcosa che va oltre la percezione, giocando con luci e suoni, colori e sensazioni, portando il tutto a un livello superiore rispetto alla mera esecuzione.
Fin dal primo momento ci rendiamo conto di essere di fronte a un progetto di rara fattura, ma lo stesso ci aveva detto l’ascolto dell’album (del quale abbiamo parlato ampiamente qui). Ritrovare un’esperienza così intensa anche dal vivo non era così scontato.
I C’mon Tigre si presentano in sei sul palco: sei voci, sei diversi interpreti, ognuno attento a trovare e cogliere il proprio spazio, a costruirsi una nicchia in un concerto in cui tutto è pesato e pensato al millimetro. Dallo spazio di ogni battuta sugli strumenti percussivi fino allo squillo di fiato più potente, la band di Habitat rifinisce e ridefinisce le atmosfere del live in un intarsio dei più pregiati, di quelli di chi sa cosa fa e perché lo fa, attestandosi sempre di più come un progetto di caratura internazionale fra i più importanti.
Voliamo fra jazz e tropicalismo, elettronica, post rock e influenze afrobeat fra le più diverse (non è un caso che, proprio nell’ultimo album, Sean Kuti figuri tra i featuring), creando un ambiente in cui gli strumenti sono predominanti, ma le voci sono comunque importanti a tracciare una via. E proprio come avevamo detto per l’album, il live dei C’mon Tigre è quasi una giungla nella quale muoversi sembra difficile, ma non impossibile, e sono proprio le voci a darci modo di ritrovare noi stessi, come quando, all’avvio di Sento un morso dolce, sentiamo un grande boato dal pubblico, e capiamo di non aver assolutamente sbagliato posto nel mondo in quel momento.
È bello perdersi e ritrovarsi in una situazione come quella che è avvenuta davanti ai nostri occhi e le nostre orecchie al Monk, perché i C’mon Tigre rappresentano e incarnano uno standard qualitativo e performativo estremamente alto, e non perché si debba essere fautori di un made in Italy da etichetta del supermercato, ma perché di progetti come questo in Italia (ma non solo) non ce ne sono molti, quasi da antologia della musica, progetti dai quali attingere se tutta la musica sparisse, un giorno, per riscriverne la storia e ricercare i suoni che furono.
Complimenti ai C’mon Tigre, al progetto, alla musica, alle intenzioni e allo spettacolo, a un live che ha saputo ipnotizzare e caricare il pubblico romano che, acclamante, ne reclamava tutto l’amore al grido di «Daje Tigre», e non credo che romanizzazione sia mai stata più perfetta.
Se ve li siete persi, se vi va, i C’mon Tigre vi aspettano ora a Pordenone, Parigi e Nilvange. Godeteveli.