– di Paolo Pescopio –
Si dice che il pazzo è colui che ripete costantemente lo stesso errore senza mai imparare, viene allora da chiedersi cosa spinga Ultimo a perpetuare l’ennesimo stillicidio ai danni dell’ascoltatore. Per chi si fosse perso le ultime puntate, Ultimo è sempre lo stesso, è quello che a Sanremo accusò i giornalisti di aver “rotto il cazzo”, lo stesso che tende a suggerirci quanto lui sia l’Ultimo Peter Pan, l’Ultimo dei romantici, l’Ultimo a sopravvivere in un mondo che sta sparendo, ma che in realtà sembra più vivo che mai: quello dei cantautori eletta schiera, che si vende la sera per un po’ di milioni, citando uno di questi (che però qualcosa da dire lo aveva).
Il dramma fondamentale della carriera di Ultimo è che qualcuno dovrebbe dirgli che non basta saper scrivere una canzone per fare una carriera, che si può variare registro stilistico, che l’esasperata enfasi e i toni forzati che lo accompagnano (e che hanno già reso gloriosa la carriera dei suoi prodromi, come Fabrizio Moro), fa risaltare in maniera ancora più insopportabile la struggente Sehnsucht protoromantica da finto poeta ottocentesco trasportato, come da incidente, ai giorni nostri.
Ultimo purtroppo non sembra avere niente da dire. E non da adesso. “Solo”, il titolo dell’album, più che suggerirci il suo esser in posizione ostinata e contraria rispetto al mondo, sembra il miglior aggettivo per riassumere i suoi “punti di forza”. Ovvero, Ultimo è solo un cantautore, è solo uno che ci prova, è solo uno che ripete continuamente la stessa canzone, e con insistenza.
Basterebbe immaginarlo chiuso nella sua cameretta, a guardare con occhi sognanti fuori dalla finestra, a cantarci del “bambino che contava le stelle”, oppure, basarci solo sui titoli per capire cosa ci presenta il disco. Brani come “Niente”, “Sul finale”, sembrano perpetuare l’ennesimo luogo comune del cantautore di borgata, finalmente riuscito ad emergere dal fango intatto e puro, come un loto, che non si sporca in mezzo a tanto malessere. Ultimo vuole giocare la parte del cantautore che in quel malessere riesce a tirare fuori lo spirto guerriero di foscoliana memoria che ruggisce, ma a vuoto, verso un nemico che non esiste e che non è neanche più se stesso.
Ormai mera pantomima del personaggio che si è costruito, fieramente vincente – i numeri sono chiaramente dalla sua – ma ormai vetusta effige di un mondo sparito, seppellito dal cantautorato più moderno dei ragazzi dell’itpop, affumicato dall’odore di erba della trap e preso a colpi in faccia dalle chitarre vecchissime ma ora più che mai moderne dei Måneskin e della schiera di rockstar che probabilmente arriverà.
Come si pone allora ultimo in questa classifica di merito della musica italiana? Il titolo ci suggerisce la risposta: Ultimo è “Solo”, come il disco di cui non avevamo bisogno e che non ricorderemo.