Tommaso Di Giulio, una delle migliori penne italiane, torna con “Dinosauri”, un racconto personale e generazionale del mondo che ci circonda, tra canzone d’autore e pop
– di Riccardo De Stefano –
Tommaso Di Giulio, prima di essere un cantautore, è una persona. Ed è una delle persone più interessanti che avrete modo di trovare. E come tutte le persone interessanti, Tommaso Di Giulio è tante cose insieme: è un musicista (gira in trio R’n’R con i Caltiki), un esperto di cinema dall’anima nerd, un autore televisivo per programmi che forse avete guardato, autore per altri artisti (tipo Max Gazzè) e ovviamente anche cantautore.
Dopo una discretamente lunga parentesi dall’attività cantautorale, quella che usa il proprio nome e cognome, per intenderci, arriva nel 2024 presentando il suo quarto album solista, “Dinosauri”, un delizioso gioiellino fatto di canzoni a metà tra il pop, elegante e colto, e la canzone d’autore, quella che cerca di dire qualcosa di più nei suoi testi.
Lo abbiamo incontrato per parlare di pop, di cinema, di coraggio nel dire certe cose.
Uno dei temi portanti dell’album è il tempo che passa, la felicità. Per molto tempo hai smesso l’attività cantautorale per suonare con una band, i Caltiki. Ora torni, cosa è cambiato? Perché ci stai provando di nuovo? Cosa ti ha fatto tornare la voglia?
Sono tornate le canzoni. Quando ho smesso mi sono imposto di smettere di scrivere certe cose. Poi per quanto possa suonare “fricchettona”, alcune cose sfuggono al controllo, o spingono tanto che poi cedi. Quando queste canzoni sono diventate tante, e gli eventi della vita hanno iniziato a gridare allo stesso volume, è arrivato il momento di unire l’utile al dilettevole e fare il punto, capire tra qualche anno che cos’è che ho fatto dal 2024 ai cinque anni precedenti. È un’operazione diaristica, mi aiuta a fare il punto su chi sono e dove sto andando.
Una cosa che caratterizza la tua persona è che sei un autore: televisivo, musicale per altri e anche cantautore. Oggi l’autoraggio è sparito: ci sono meno autori e sempre gli stessi. Che ruolo ha l’autore oggi e come vedi il tuo ruolo di autore?
Faccio l’autore per qualsiasi campo mediatico mi voglia in scrittura, ma quando lo faccio per me mi prendo la libertà, anche grazie a un successo non plebiscitario conquistato negli anni, che permette tante cose positive, ma obbliga anche a dei confini precisi e aspettative diverse. Ho la libertà di chi può fare e dire quello che vuole, ritagliandomi una dimensione più privata, perché negli altri campi è solo un lavoro, che porta felicità ma anche tanti compromessi. Volevo fare un disco per parlare di ciò che ti sta a cuore, non necessariamente di sé stessi. È un disco strano, molto privato e personale ma anche aperto nel raccontare cose che parlino a tanti altri, rispetto ad altri dischi precedenti dove era molto più stretta la connessione tra i fatti percepiti o osservati e la loro traduzione in canzone. Qui sarà colpa dell’età, ma c’è una voglia di domandare “ma anche a voi è successo così? Perché io l’ho vissuta così”.
Tra i temi del disco c’è non a caso la paura verso le sfide che ti si pongono davanti. C’è un certo spirito catastrofista, come i dinosauri che aspettano l’asteroide, ma senza la pesantezza che ci si potrebbe aspettare. Forse c’è più disillusione che amarezza?
C’è molta apprensione, sicuramente. L’aspetto catastrofico c’è, ma è vissuto con partecipazione e poco distacco. Le canzoni sono nate perché dovevo “sintetizzare” nel modo migliore possibile quello che mi stava a cuore, e che osservavo andare fuori controllo nella contemporaneità. Anche quello rientra nel crescere e secondo me ci sono due tipi di persone: quella che quando cresce tende alla disillusione e finisce per dire “lasciamo che siano le nuove generazioni a preoccuparsi, io ho fatto quello che ho potuto”. Poi quelli con una maturità quasi militante, una voglia di impegnarsi in senso lato, man mano che crescono, che arrivano a capire e fare qualcosa in maniera migliore adesso, rispetto una certa indeterminatezza giovanile. Io credo di essere nella seconda categoria, quella che crescendo acquisisce una nuova prospettiva e ha voglia di metterla in musica, canzoni e parole.
In “Soltanto se ci va” sostieni che “il mondo fa le prove per tornare al ’29”. Tu stai andando nella stessa direzione o vai in una direzione tua? Il tuo album che mondo vede e che mondo vive?
Il disco attraversa un percorso, è un racconto di canzoni concatenate, che si possono sentire singolarmente, ma se sentite di fila è meglio. Raccontano una serie di fasi, come le famose fasi del lutto, caratterizzate da degli shock, a volte negativi, a volte positivi, visto che la vita è complessa. Ci sono varie sfumature quando la vita ti mostra il conto, e in determinati casi viene da dire “il mondo non ha possibilità di redenzione, i pochi che si salveranno li porto con me”. Poi ci sono le canzoni dove si rilancia una presa di coscienza, una rinascita. “Anche basta” promuove questo atteggiamento, mentre “Quando ho paura” è una canzone che grazie al bisogno e all’istinto di proteggere qualcun altro racconta il bisogno di mettere da parte una serie di terrori atavici che ci si porta dietro. Improvvisamente capisci che c’è bisogno di te per qualcun altro, e poi si scopre che la cosa è reciproca. Metà disco è vicino a quello che suggerivi tu, non ce la faremo, godiamoci il poco che resta, e l’altra no, usciamo e vediamo quello che si può fare.
Il disco ha una natura quasi di concept, le canzoni sembrano legate musicalmente, quasi concatenate a mo’ di suite. È stato pensato “verticalmente”, oltre che per testi delle canzoni, anche dal punto di vista musicale?
No, le canzoni che hanno superato le varie fasi di selezione sono una quindicina, quasi il doppio. Quando ho selezionato le migliori, avevo idea di fare un disco breve, 8 brani, una mezz’ora ma molto densa. Mi sono accorto che quelle che comunicavano meglio tra loro si passavano la palla, riguardo gli argomenti che fanno da perno all’album. “Dinosauri” è stata la prima canzone che ho scritto, ed è divertente che la title track sia stata la prima, non c’è stato mai dubbio che fosse l’apertura e quando a un certo punto è arrivata “Quando ho paura”, avevo la perfetta chiusura. Ho costruito il resto facendo in modo che ad ascoltarlo in loop ci fosse una circolarità narrativa.
Quando si scrivono canzoni per un album ci sono due approcci in genere: o si scrive tutto in tre mesi o le canzoni vengono accumulate in anni. Hai detto di averci messo 5 anni, ora che è uscito lo vedi vicino o lontano? Parla del presente o è una finestra sul passato?
Metà dell’album è la summa di cose successe, altre hanno anticipato cose insospettabili, erano nell’aria e ci voleva una canzone per evocarle, Nick Cave lo ha detto varie volte, una sorta di legge dell’attrazione. Credo che buona parte dell’album sia una forma di scintilla per la locomotiva per affrontare quello che arriverà, negli anni a venire.
Il pop oggi è strano, obliquo, artisti come Lazza e Pausini sono entrambi pop, e il cantautorato non è meno obliquo ormai. Come dovremmo definire la tua musica?
Mi fermo a dire “pop”, perché pop vuol dire tutto, nell’accezione positiva del termine. Tanti anni fa in un’altra intervista mi definirono “pop cinematografico” e da allora mi porto questa definizione avanti felicemente. Mi piace questa idea e questo lavoro sulle immagini, che possono essere montate, interpretate e percepite e poi tradotte personalmente dalle persone. Sono storie senza una trama obbligata e senza troppe didascalie, come i film che piacciono a me.
Dopo l’ubriacatura indie degli anni 10 e il pop trap di questi anni, come lo vedi il tuo disco in questo momento? Hai scelto una formula musicale molto larga, cosa cercavi nel momento i cui volevi questo suono nell’album?
La scelta del sound è stata più ragionato rispetto alla scrittura. Amando molti generi diversi, e ascoltandone tanti, non faccio come altri colleghi che si isolano e non sentono niente quando scrivono gli album. Io sento dall’heavy metal estremo al pop anni ’60, con tutto quello che c’è in mezzo. Questo ha condizionato l’arrangiamento dei miei album facendo sì che fossero coerenti dal punto di vista delle tematiche, ma molto meno dal punto di vista musicale. Oggi, bombardanti da stimoli, si fa fatica a fruire qualcosa di meno riconoscibile. A questo giro ho scelto di esser più organico e omogeneo nelle trame musicali, per cui due sono state le scelte: una sorta di pop soul da camera per metà disco e una roba più psichedelica e libera dalla forma canzone con tracce di elettronica per l’altra. In un paio di punti questi mondi si incontrano. Mi sembra nettamente più chiaro il discorso musicale, adesso.
Nel tuo disco c’è una guest che è anche un amico, Mox. Lo hai definito come una affinità che va oltre l’amicizia musicale e personale.
Mox è uno dei più bravi artisti e autori. Ho avuto la fortuna di suonare con lui dai primi tempi del Jonny Blitz, condividemmo il palco durante un lontano “Roma brucia”. Era l’esordio di Calcutta in apertura del sottoscritto (ride ndr) e ci scambiammo subito complimenti con i Jonny Blitz e Mox in particolare. Avevamo una fissa in comune con gli anni ’60, con un certo immaginario: ci siamo ripromessi per anni di fare qualcosa insieme. Visto che “Come un rigore agli europei” parla di una contesa tra due maschi timidi e goffi che pensano di potersi contendere una ragazza, che si fa gioco di loro e fa dei loro cuori quello che preferisce, avevo bisogno di un partner in crime all’altezza. Gli ho proposto 4 canzoni, pregando il dio del rock and roll che scegliesse quella giusta, e così è andata. È stato semplice ed è stata una bellissima giornata estiva. E ne io né lui capiamo nulla di calcio!
Visto che il tuo pop è “cinematografico” e tu sei un autore televisivo, qual è un film o una serie tv per cui “dinosauri” sarebbe una perfetta colonna sonora?
Se fosse un film forse sarebbe “Un sogno lungo un giorno” di Francis Ford Coppola, il film che lo ha fatto fallire, ma un capolavoro assoluto. Un film sull’amore, sulle illusioni, sui sensi, con una malinconia e un’amarezza a cui però si reagisce con la ricerca della bellezza e dell’affetto. Oppure “Cuore Selvaggio” di David Lynch, un film di contrasti, con i colori pastello, e poi l’orrore, il senso di fine imminente. Per la serie, vorrei – e sono un po’ presuntuoso – a metà tra “The Office” versione americana, dove si piange e si ride, e una serie contemporanea, molto bella, di cui ho visto solo i due episodi iniziali che si chiama “Rivals”, una serie inglese con David Tennant. È ambientata negli anni ’80, nel mondo degli squali della TV britannica, la scelgo forse perché conosco bene quel mondo, mi sembra un ritratto tanto impietoso quanto vero, come direbbero i giornalisti. Vorrei che anche quest’album arrivasse alla stessa maniera.