Il secondo è un giorno grigio e nuvoloso e non riesce a trasmettere molta fiducia, anche se mentre ci avviciniamo verso la zona palco, una vocina dentro di noi ci sussurra che pure a Woodstock si mise a piovere e ne uscì uno dei pilastri della storia dei festival musicali. Ma la realtà è ben più prosaica delle vocine e dopo aver affidato la mia pericolosa borraccia ai solerti addetti alla sicurezza, finalmente ci guadagniamo il live di Colapesce. L’infedele apre il concerto dapprima con un costume da (neanche a dirlo) pescespada, per poi passare ad abito talare, insieme a tutta la sua band con tanto di monogramma di Cristo sulla grancassa, ci fa fare un bel ripasso dei suoi ultimi lavori ed affida alle sapienti mani e voce della magnifica Adele Nigro buona parte delle esecuzioni, dai fiati alla chitarra d’accompagnamento fino ai cori. Come sempre il cantautore siciliano ne ha un po’ per tutti, dalla frecciata a Salvini, che raccoglie un’ondata di applausi, fino alla caustica ma sempreverde “Maledetti Italiani”. Sul finale la voce di Lorenzo va giù e forse accusa leggermente la fatica, ma d’altra parte il pubblico che ci sta a fare? Lo aiuta nei cori e lo lascia concentrare sulla chitarra distorta ormai lanciata in aperta sperimentazione live, infine inchini e saluti di rito che ti lasciano quella voglia di una mas al termine di un’esibizione da togliersi il cappello.
È ora del cambio palco e chiaramente della solita pausa ristoro per tutti gli spettatori, ormai il sole è tramontato e rispetto al giorno precedente si respira un’atmosfera diversa, meno spensierata e forse lievemente più tesa: i membri della security sembrano più rigidi e un reparto della celere gironzola fra il pubblico. Strano, ma nulla di allarmante. Si ricomincia con lo show degli Echo & the Bunnymen, che purtroppo si sono prodotti in quella che finora è stata probabilmente la performance che più ci ha delusi. È mancato qualcosa nello spettacolo, non è forse arrivata una parte della carica che avrebbero voluto esprimere, il tutto è stato sottolineato dall’eccessiva staticità dei membri del gruppo sul palco, sembravano quasi in bambola e forse troppo aggrappati alla sigaretta di un Ian McCulloch sottotono. A chi non capita una serata storta?
Ore 22.30, si affacciano sul palco due imponenti amplificatori Orange, e non c’è dubbio: sta per avere inizio il concerto dei Mogwai, fin dal primo secondo concentratissimi sulla loro musica, testa bassa e decibel oltre ogni limite concesso dal palco, il pubblico si divide fra chi ondeggia ad occhi chiusi in piena balia dello shoegaze e chi invece si dimena sul rullante della frenetica batteria. Canzone dopo canzone i componenti del gruppo si scambiano gli strumenti fra di loro neanche fossero figurine, spostandosi ognuno in zone differenti del palco senza posa, la formazione sembra estremamente liquida pur seguendo il dogma della carica che trasmettono al pubblico come fosse la loro missione, la loro crociata e dando come solo punto di riferimento l’immancabile ed immutabile “Grazi, thank you” pronunciato al termine di ogni pezzo. Ogni singolo pezzo, giuro.
Conclusa l’immersiva esperienza sensoriale dei Mogwai, lo sPAZIO211 chiude i battenti e indirizza implicitamente tutti gli astanti verso l’imminente spettacolo di Cosmo, che puntuale alle 00.30 inizia a pompare nelle casse dell’Ex Fabbrica INCET con una carica che definire travolgente sarebbe fargli un torto. Salta, si agita canta e non si ferma mai, sciorina i pezzi di “Cosmotronic” e in una prova d’artista vero e consumato riesce ad affrontare un paio di disagi, come il testo di una canzone dimenticato o il mixer che impazzisce e gli “rompe la canzone”, con estrema scioltezza, anzi trasformandoli in motivo di carica più che scoraggiamento. Coreografie degne di una serata all’Amnesia, coriandoli sparati a cannonate e fumo come se piovesse, il tutto per un concerto di appena venticinque minuti. Showman al 100%, poco da aggiungere.
E pensare che manca ancora una giornata intera alla fine del TOdays.
Edoardo Biocco
Marco Francini