“Cuore e anima”, due cose talmente importanti che spesso vengono usate come sinonimo l’uno dell’altra: il cuore, motore fondamentale, e l’anima, la parte più sincera, più intima, più nascosta e, nonostante tutto questo, la più evidente. I The Rideouts volevano sottolineare il concetto di un disco reale, schietto, senza plastificazioni, sin dal titolo scelto per la loro nuova avventura musicale. La band, formatasi nel 2003, vanta ormai una carriera ormai più che decennale, ed ha raccolto tutta la sua esperienza in undici pezzi (quelli che compongono l’album) prodotti in maniera impeccabile e molto curata, impressi su disco e in seguito martirizzati al Mercury Mastering in California con Blake La Grange.
La tela su cui si adagiano le canzoni dei The Rideouts è quella del rock prepotentemente britannico, tra rock blues e qualche accenno di psichedelia. Questo porterebbe a pensare che questo Heart And Soul sia l’ennesimo disco nostalgico, l’ennesimo disco che vuole chiudere gli occhi e cullarsi in sound antichi e ormai quasi perduti, ma nessun pensiero sarebbe più sbagliato, e tutto diventa molto più chiaro già solo dopo aver ascoltato una manciata dei brani che lo compongono.
Questo è un disco moderno, che si appoggia ad un sound che rimanda fortemente ai fasti del passato, un po’ ai Beatles e agli Stones, un po’ agli Zeppelin, ma che riesce a guardare tutta questa grande musica con gli occhi del 2016.
Si può ancora oggi, epoca dei synth, delle armonizzazioni vocali da coro, delle batterie elettroniche e dei metronomi in cuffia durante le esibizioni, fare un disco con la formula più semplice eppure più efficace di sempre, con due chitarre, basso e batteria? Si, si può, e i The Rideouts ne sono la conferma.
E allora che sia rock, che sia veloce, che sia sporco, che venga dal cuore.
Si parte con un pezzo che è proprio il manifesto di quanto stiamo dicendo, ossia Not Enough, riff di chitarra, overdrive , voce graffiante e tanta energia. Energia che non si perde anche nella successiva Plastic Soul, e via così. C’è ovviamente spazio anche per qualche momento più introspettivo con le classiche ballad, I’m So Sorry, e la conclusiva Don’t Cry (che in effetti ricorda i Guns and Roses, nel titolo e anche nelle armonie vocali ampie e di gran respiro).
Citazione a parte merita Take it Easy, canzone “da radio”, con il ritornello catchy e la spensieratezza di chi chiede, oggi, tempo dell’ansia e della paura di vivere, di prendere le cose un po’ meno sul serio, ed affrontare la vita con più tranquillità e gioia.
Un bel disco, curato e diligente, ma anche scanzonato e pronto a far ballare e a far battere a tempo il volante della propria macchina come se fosse una batteria messa in uno stadio pieno di gente.
Francesco Pepe