Il fantastico mondo della musica eseguita e dei personaggi che ne fanno parte si può facilmente dividere in sub-categorie che ne determinano il corretto funzionamento. Queste possono essere raggruppate e divise, in funzione del loro operato, in ruoli e/o ranghi; fare una netta distinzione tra i due termini, può chiarire i meccanismi che muovono gli ingranaggi che si trovano dietro le quinte e che purtroppo nella maggior parte dei casi sono sconosciuti ai più: per ruolo si intende l’azione che l’individuo o l’istituzione esercita in funzione del gruppo o del processo al quale questi appartengono nell’ambito musicale (questo concetto distingue la mansione di un qualsiasi musicista da quella di un fonico o di un organizzatore, o di un direttore artistico), mentre il rango rappresenta la posizione occupata e le responsabilità che questa posizione comporta. Chi ha un ruolo non ha necessariamente un rango, mentre chi occupa una posizione di rango deve avere un ruolo affinché tutto funzioni in maniera ottimale.
Ovviamente non esiste un manuale che esplichi quali siano le regole del corretto funzionamento della musica live, ma esiste il buonsenso e soprattutto la passione che si ha nello svolgere un mestiere come quello del musicista e di chi lavora giorno dopo giorno per portare avanti la musica dal vivo.
Per capire a 360° quello che avviene intorno ad un palco, bisogna necessariamente viverlo guardandolo non solo da un unico punto di vista, ma facendo i conti con tutti gli elementi che influenzano positivamente e negativamente la riuscita di un concerto. Oltre al nostro personale punto di vista è fondamentale mettersi nei panni di chi partecipa attivamente alla riuscita dell’evento. Io stesso ometto qui il mio punto di vista. Bisogna rendersi conto che stiamo tutti sulla stessa barca e che remiamo nella stessa identica direzione: la collaborazione dei diversi ruoli facilita l’abbattimento di quelle inutili barriere imposte dai ranghi, che necessariamente prima o poi portano allo scontro. Troppo spesso vedo nascere nuove attività che falliscono prima ancora di aprire per i più disparati motivi (di natura burocratica, organizzativa e via dicendo) e tutte quasi sempre con un unico minimo comune multiplo: l’inesperienza. Il non conoscere un mondo apparentemente semplice dall’esterno, trasforma il “sognare di aprire un’attività redditizia che riesca a sposare passione e lavoro” in un incubo dal quale è difficile venirne fuori. Partiamo dal presupposto che non basta allestire un palco per fare musica dal vivo, così come non basta comprare un locale per saperlo gestire; allo stesso modo non basta pensare di saper suonare uno strumento per far parte di un gruppo e non basta portare i soliti venti amici al tuo concerto, per far sì che un concerto sia riuscito alla perfezione.
Purtroppo c’è sempre più distanza tra i ruoli, quando basterebbe veramente poco per aiutare la scena underground italiana a risollevarsi. C’è chi combatte per avere un cachet, c’è chi combatte per fare tre concerti a settimana nella stessa città di fronte a dieci persone. C’è chi pretende di avere una clientela non facendo pubblicità e c’è chi a fine serata non ti paga la cifra pattuita, perché gli avrai pure riempito il locale, dopo giornate intere passate di fronte al PC a conquistarti il parteciperò dei tuoi amici sull’evento di facebook, ma nonostante tutto, “non hanno consumato abbastanza”. Forse sarà troppo tardi quando ci si renderà conto che il semplice spam sui social network non è neanche lontanamente parente dell’anima del commercio. La pubblicità si paga, lo spam no. In più vedo che (anche grazie alla musica underground), gli unici tre locali della mia città in grado di avvicinarsi al sold out fanno della pubblicità cartacea, radiofonica, negli spazi affissivi, ecc, la loro arma migliore. Questo conferma e avvalora la mia teoria. Ovviamente è vero che rispetto a dieci anni fa l’invasione delle nuove tecnologie apra nuove strade e che senza alcun dubbio queste allarghino il bacino d’utenza, ma non si può sperare di mantenersi in vita unicamente grazie ai social network.
Leggo e sento poi numerose teorie che danno la colpa del fallimento degli eventi di musica dal vivo ad un pubblico privo di cultura musicale, che sempre meno va alla ricerca, nella scena locale, di una sua identità. Sebbene sia vero che la gente popoli sempre meno la scena musicale locale, credo che la colpa sia imputabile alla crescente inaccessibilità delle organizzazioni che bombardano sempre di più le persone con troppi eventi. Purtroppo in questa giungla di offerte il pubblico, inevitabilmente, viene dirottato verso scelte più semplici. Scelte che sono certamente mirate al divertimento estemporaneo, come può essere una serata passata in discoteca.
C’è poi un’ulteriore componente da dover analizzare. I profitti di un locale provengono unicamente dalle vendite: la crisi ha fatto sì che queste si abbassassero notevolmente e, conseguentemente, che gli stessi locali, sia attraverso l’aumento dei prezzi, sia attraverso l’immissione di quote ingresso, potessero rimanere a galla. Avendo visto in prima persona gli introiti dei locali, lavorandoci io stesso, posso assicurarvi che la maggior parte dei gestori fanno della crisi il loro scudo. E quando un locale si reinventa passando da semplice pub a live music club per aumentare i profitti, crea ulteriore concorrenza a chi già non versa in buone acque. Piuttosto che investire, rinnovare e mantenere la loro clientela, preferiscono cambiare il target. Purtroppo anche in questo non c’è la giusta regolamentazione, favorendo una situazione di inevitabile caos.
La musica è un investimento per tutti: è un palese investimento per il musicista che al giorno d’oggi non può far altro che autoprodursi; è un investimento per il locale perché a fine serata deve avere un guadagno che consenta alla gestione di vivere, nel migliore dei casi, e di sopravvivere nella maggior parte. Ma è fondamentale che ogni singolo personaggio di questa “catena di montaggio” si prenda le sue responsabilità. Ogni ruolo ha la sua importanza, ogni ruolo le sue responsabilità.
Alla base di tutto c’è il tornaconto economico che spesso va a scontrarsi con la semplice voglia di fare musica. Ma i tempi cambiano, le etichette non investono sulle scommesse, preferendo piuttosto incentivare e rafforzare il mercato del certo; talmente tanto certo, che è diventato in tutti questi anni noioso, scontato e tragicamente incolore. Mancano le idee e la voglia di scoprire, nonostante il sottosuolo sia ricco di potenziale e voglia di uscire dal guscio. In compenso ci sono manifestazioni che inspiegabilmente sopravvivono. C’erano dieci anni fa, ci sono oggi: gli pseudo contest per gruppi emergenti. Queste fantastiche rassegne musicali che promettono mari e monti, che riempiono i locali con un pubblico composto da personaggi delle più disparate fasce d’età: dal bambino al nonno, sono tutti ancora lì a sostenere il nipote, il fratello, il figlio grazie ad una semplicissima alzata di mano. Anche questo fa male alla musica dal vivo.
Alla base di tutto c’è l’ignoranza. La colpa di tutti i problemi legati al decadere del mercato della musica underground, è da attribuire a chi ignora l’esistenza delle regole. E per far si che si possa voltare pagina, bisogna che tutti le rispettino; e qualora queste non siano in grado di educare gestori, musicisti, direttori artistici, fonici, c’è la necessità ed il dovere di modificarle. Certo è che andando attentamente ad analizzare, salendo ovviamente di rango, i ruoli e le gestioni di chi dovrebbe tutelare ogni singolo componente facente parte di questa vastissima categoria, ci rendiamo conto che forse il problema sta ancora più a monte. Ci troviamo oggi a compilare se siamo fortunati, un borderò ogni venti concerti. E in quel raro caso, siamo costretti ad inserire nell’elenco quei dieci, quindici brani extra, scritti dal gruppo dei nostri amici, per far guadagnare a noi e a loro quel qualcosa in più rispetto allo zero. E probabilmente il miliardoquarantasettemilionisettantatremilasettecentodue euro di debiti che nel 2012 affliggono la società italiana degli autori ed editori meglio conosciuta come SIAE non ha niente a che fare con il piccolo mondo delle band emergenti.
Mad Curtis
ExitWell Magazine n° 0 (gennaio/febbraio 2013)
Gli interessi in gioco sono molti e a quanto pare giungere ad un compromesso sembra pura utopia (almeno nella capitale)….. e’ vero ognuno dovrebbe metterci del suo per cercare di far andare bene le cose per tutti, ma forse sarebbe bene partire dal presupposto fondamentale: che suonare non è solo SOLO un divertimento, ma per alcuni (artisti emergenti) vorrebbe essere una professione e come tale, dovrebbe essere rispettata e trattata.