– di Naomi Roccamo –
Siamo a maggio e maggio rimane nonostante tutto il mese della speranza. Arriva a cannone come una boccata d’aria fresca quando non se ne poteva più, fra l’abitudine delle abitudini fredde e pesanti e le temperature sempre più calde. Osa un po’.
Forse è proprio questo quello che sta provando a fare maggio, nome d’arte di Roberto He; Nel mentre prova a rendere giustizia a tutte quelle cose che di giusto hanno poco, ma esistono, si sentono e sono fastidiosamente reali, quindi è giusto raccontarle via.
Il lato A di Nel mentre è uscito il 7 maggio 2021 per Asian Fake e Sony Music Italy è una collezione delle esperienze, degli odori, dei colori presenti in quei flussi di coscienza che sono le giornate. “Ora vorrei” è il primo singolo estratto da questo primo album ufficiale.
“Ora vorrei” è il rifugio stesso di quelle mancanze che danno vita al significato della canzone. Quante e quali altre mancanze hanno caratterizzato l’anno di maggio?
Io credo che la conta totale la vedremo più dopo che durante questo periodo, che a mio parere non è ancora finito. Scrivendo il disco mi sono chiesto: “Cosa è che ho vissuto in maniera filtrata, che non mi fa vedere tutto quanto? Cosa è che manca?” Parlo delle cose più strane… Non so, guardare un video trash, quando mangi fuori e ti rode il culo, quelle cose a cui, di solito, tendi a non dare un valore; di base nasce da quello. Le altre mancanze ci sono chiaramente e sono legate all’ambito umano e sulla lunga distanza è quella la conseguenza più forte. Fare un elenco mi ha ricordato cosa c’è oggi e cosa posso ritrovare domani se mi impegno, se ci impegniamo tutti, anzi.
Tu e Tanca, il producer di “Ora vorrei”, avete già creato insieme due EP, Manuale di sopravvivenza per fiati corti e I nostri fallimenti. Lui, come altri membri della Klen Sheet, il tuo collettivo, è, prima di essere un tuo collaboratore, un tuo amico? Vorrei che spiegassi agli altri chi è per te la Klen Sheet come meglio credi. Ho letto che era il nome del tuo cane…
Sì, era il nome del mio cane quando ero piccolo e fino a quando non ero adolescente e post adolescente e coincide con il mio cambio vita da Roma a Milano. Per me non era proprio un memento mori, figurati, però ho iniziato a fare le cose perchè dispiaciuto dalla sua scomparsa, volevo valorizzare certe cose e non soffrire rimpiangendole dopo. Ora che Klen Sheet è un gruppo più ampio è come aver concretizzato il motivo per cui è nato, avere persone con cui le cose si fanno piuttosto che rimpiangerle. Fare il Klen Sheet è vivere quelle mancanze che io cercavo di placare da solo. Quando ho fatto il gruppo eravamo in tre. All’inizio a Milano ero da solo, poi ho conosciuto Stefano Tancredi (Tanca), ho capito che si trattava di qualcosa di più grande e ora è la base sicura dove, a mio parere, è bello esprimersi per come si è. Tra l’altro mentre faccio il disco e le mie cose personali loro li becco e facciamo altre cose insieme e il bello è che io cambio proprio stile, a livello umano. Quel lato che viene fuori non quando stai da solo, ma solo quando stai con i tuoi amici.
E com’è stato entrare in Asian Fake, roaster milanese per eccellenza?
È stato un passaggio abbastanza naturale. A me interessava fare musica e farla ascoltare agli altri e mi sembrava che ci sarebbe stato bene lavorare con qualcuno, una qualche entità del settore musicale che potesse aiutarmi a crescere, per cui alla fine io semplicemente ne ho parlato coi ragazzi e insieme abbiamo sviluppato un piano di azione e visualizzazione di quello che poteva essere il mio progetto. Adesso stiamo solo mettendo in atto quello che era stato detto all’inizio, praticamente.
Hai origini cinesi, sei romano e ti sei spostato nell’avanguardia milanese. Quando si è tanto spaccati a metà fra due città emotivamente imponenti come Roma e Milano con quale criterio si decide quanto aggiungere alla musica un po’ di una e dell’altra?
Nella musica credo sia abbastanza semplice perché è una questione realmente pratica. Vivendo a Milano inevitabilmente attingo dalla vita qui; anche se nel mio passato c’è tantissima Roma non volevo fare il tipo hipster che cambia città e soffre di malinconia e parla solo di quello, alla fine sto qui da quattro anni.
(Gli faccio notare il suo accento ibrido, anche se riascoltando la telefonata mi sembra molto più romano che milanese, ndr)
Sto provando a pulirlo (ride ndr). Non è una cosa che scelgo, scrivo di una cosa quando mi va di farlo. A volte invece ci ragiono un po’ di più; in questo ultimo disco c’è molta più Milano di Roma perché sapevo di voler parlare dell’ultimo periodo che stavo vivendo. Nella vita reale sono un miscuglio di culture già di mio. Sono nato a Roma da genitori cinesi però i primi ricordi coscienti che ho sono fra Roma e Bracciano. Non c’è una barriera che divide le due cose. Sono un mix di default. Sono romano di indole, ecco.
Anche il mondo della moda fa parte del tuo mondo. Nei tuoi videoclip si nota. C’è una connessione con la tua musica?
Quello della moda è un lavoro che mi è stato offerto, che quando posso faccio. Bisogna pagare le cose, ride ndr. La musica era quello per cui andavo a dormire contento la sera, anche all’inizio quando a Milano lavoravo come grafico. Lì ho capito che era una cosa che andava protetta, c’è un’affezione. Per quanto riguarda la moda dico che ogni lavoro ha un punto di vista interessante per essere vissuto. Ogni volta che vado sui set cerco di rubare un po’ di qualcosa da tutta la gente che incontro, è sempre utile per scrivere. In alcune rime va inserita pure l’esperienza proveniente dalla moda. Famo tutto! (ride, ndr)
Prima, nominando il tuo periodo da solo a Milano, all’inizio, mi hai riportato al contesto di “Sfortuna” de I Botanici, che esprime tutta la nostra insoddisfazione generazionale. Deriva da questo la scelta di farne una cover, quasi un anno fa?
In realtà quando sono stato contattato dai ragazzi era la prima volta che qualcuno di esterno mi chiamava per fare qualcosa e ho pensato “ficata!”. Credo fosse qualche mese prima del 2020 e quando me lo hanno detto mi sono legato al discorso che loro avevano già portato avanti nel testo tramite la mia storia: Milano, l’arrivo soprattutto, che è lo step più traumatico da fine adolescenza. Prima di esplodere la canzone nomina quel passaggio fra i venticinque e i ventisei anni e io ne stavo facendo proprio ventisei. Mi sono avvicinato stilisticamente al genere emo, piuttosto che rimanere sul rap. Ecco una cosa che a me non piace è quando i “crossover” sono tanto evidenti: se tu mi chiami per dare il mio contributo a un tuo pezzo io devo provare a cogliere la tua anima e almeno provare a farla suonare da me.
In “a 26/27 anni”, con Giumo, un po’ di quella disillusione si trascina quando dici: “A ventisei o ventisette non succede niente, onestamente ho solo più paura, veramente”. Non solo lì, a dire il vero. Possiamo dire a chi si sente così già a diciannove, ventidue, venticinque anni che più avanti qualcosa cambierà nel bene o anche nel male?
Ma certo, assolutamente. Il punto è secondo me il risolversi i dubbi. Credo che la maggior parte delle persone di oggi voglia risolvere le cose che hai in testa per poi partire . Solo che mi sono accorto a ventisei, ventisette anni che si è così impegnati a rimanere concentrati sulle aspettative su quello che bisogna fare il giorno dopo tanto da non godersi le cose da fare nel presente. Quel pezzo lo scrissi in un momento malinconico. Io a ventisette anni non faccio nulla di epocale, chiudo il disco e basta.
Dopo quella hit che è “Adulti” torni a collaborare con Golden Years nelle due tracce, “chiudere un occhio”, l’intro e “aprire un occhio”, l’outro. Dicci di più di questa scelta ciclica.
Considera che “aprire un occhio” c’è perché prima c’è “chiudere un occhio”; c’è un senso che sta al di fuori della musica e che adesso ti spiego. La scorsa estate sono stato fra Roma e Viterbo per lavorare con mia madre e sono stato in studio da Pietro a Roma, dopo averlo conosciuto registrando “Adulti”. Io mi son messo a scrivere questo freestyle e a rapparlo ed è rimasto lì fermo per mesi. Mi sembrava come se fosse stato quello il momento in cui mi sono addentrato nelle cose anche se era agosto ed è un periodo in cui tu non capisci niente, sei sommerso dalla corrente. Mi sono proprio immaginato l’atto del chiudere un occhio, una metafora per la vita di quel momento, chiudere un occhio per mettere meglio a fuoco con l’altro. Dopo aver chiuso un occhio è arrivata “aprire un occhio” e la vita per davvero. Tutto ciò è in linea con il concetto totale del disco.
Su Instagram hai dato un assaggino del making of di questo primo lato A. Dobbiamo aspettarci questo anche per il lato B e che altro?
Il disco è diviso in due parti proprio per dare ritmo al progetto. La prima parte ha senso già di per sé, ma c’è un legame con quella che verrà. La seconda mostra quello che succede quando, appunto, apri un occhio ed io sono proprio a lavoro su questa parte, con un po’ di cose da definire, altre parti di me da trovare. Se tu fai quattordici brani è abbastanza palese che la prima parte risalga a un certo periodo e quella dopo trovi cambiato pure me. Cambio idea in fretta su alcune cose, quindi è imprevedibile anche per me. Poi io scrivo di fretta ma torno sempre indietro a rivedere i pezzi. Collaborare con gli altri, fra distanze e impegni personali, è molto complicato. Entrambe le parti hanno bisogno di quel processo di “lievitazione”.
Quello che speriamo sicuramente è che queste parti vengano raccontate live, prima o poi!
Ma speriamo de sì, rega’! A presto e grazie!