– di Yna –
Mattia Stifanelli, salentino, vincitore del MEI Meeting Music Contest 2021. È uscito lo scorso 20 ottobre il suo nuovo EP, che si potrebbe banalmente associare a una nuova classe dell’indie, uno sguardo sul mondo, senza troppe pretese, schietto, diretto, un incedere annoiato, terreno ma leggerissimo. E oltre a questo in realtà c’è molto di più. Parliamo di strumenti veri, storie vere, una realtà che un po’ forse ci mancava, un’umanità da tazza di caffè, o da birretta la sera, o da spesa domenicale. Una produzione azzeccatissima: lei serissima, lui, invece, ci tiene a non volersi prendere troppo sul serio. Noi però lo abbiamo fatto.
“Questo è quanto” è il nome del suo EP. Gli abbiamo chiesto di scegliere i suoi quattro album del cuore che meglio lo descrivono.
- Dell’impero delle Tenebre – Il Teatro degli Orrori
Rappresenta il mio passato da batterista e ancora oggi è uno dei miei album preferiti della scena italiana di 15 anni fa.
- Il mondo è come te lo Metti in Testa – Giovanni Truppi
Un capolavoro dal quale ancora oggi prendo ispirazione. Testi irraggiungibili ma ci proviamo.
- Scaccomatto – Andrea Ra
Una delle perle italiane sconosciute a mio parere, riesce a sintetizzare il sound sporco e i testi sarcastici che ho sempre come punto di riferimento nella mia scrittura.
- Ingresso Libero – Rino Gaetano
Forse un classicone, un capolavoro, impossibile non citarlo. Questo credo sia l’album che ha attivato più di tutti la mia voglia di scrivere e soprattutto lo stile da cercare.
I tuoi brani hanno molte influenze, indie rock, sonorità british e un fare da brutto ceffo mezzo grungettone. Si sentono alla fine dei pezzi le registrazioni, le parole in sala. Come sei arrivato a questo sound?
Ci siamo divertiti a registrare in presa diretta, specialmente batteria e basso, per arrivare ad un sound da sala prove, graffiato e sporco. Ho cercato di creare un’atmosfera amichevole per l’ascoltatore, lasciando spazio a tutti i takes “al naturale”. La scelta di far sentire alcune parole o frasi è proprio per trasmettere l’idea del non prendersi mai troppo sul serio.
Il termine cantautore ha sempre troppe sfumature che ancora non riesce bene a rappresentare, una lotta furibonda a uscire da sé ma a rimanere sempre sé stesso. Quanto ti senti “cantautore”?
Diciamo che più che cantautore mi sento cantastorie. Alla fine, scrivo di storie che mi succedono o che mi vengono raccontate.
Per quanto i miei pezzi possano essere per la maggior parte dei casi autobiografici, mi piace in realtà cantarli e interpretarli come se non fossi stato io il protagonista di quella storia, proprio per raccontare all’ascoltatore una storia come se fossi un narratore esterno.
Dai, ultima domanda, quella che fanno ai colloqui. Come ti vedi tra cinque anni?
Sicuramente spero vivo e vegeto e magari a suonare su qualche palco con un po’ di gente che canta le mie canzoni, e magari anch’io cantarle bene.