Ho come l’impressione che un disco simile nasca da anni e anni di suoni cover del genere… e dopo aver suonato tanto la musica degli altri, troppo spesso, si affila una tecnica decisamente alta ma una difficoltà di esprimere la propria creatività che quindi può sopravvivere solo cibandosi di quei modi famosi ricopiati per tanto tempo. Forse sto sbagliando e chiedo scusa a loro in primis, ma è fortissima questa sensazione dopo aver ascolto il disco d’esordio degli stArt, disco che cita continuamente la storia del rock internazionale e pochissima forza riesce ad imprimere nella propria personalità.
È un debutto e questo significa che si deve far di conto con quell’urgenza lasciata libera di andare senza alcun tipo di filtro. E volendo, una simile situazione, impiega poco a svalutarsi dentro ridondanze assai ingenue… ma per un esordio in stile anni ’90, di quel rock epico che poi le distorsioni pop di dischi come Train o Avril Lavigne hanno cercato di imporre dentro pattern decisamente più morbidi e radiofonici. Ma in tutto questo non dobbiamo dimenticarci di Bon Jovi o degli Scorpions: la lista è ardua da gestire sfogliando le pagine di questo “Frequencies from Nowhere”, il primo disco dei veronesi stArt. Il concept parla di allegorie personali, angoli del personalissimo vissuto che lottano continuamente con una dimensione di riconoscenza e riconoscibilità, con se stessi prima e con il mondo percepito poi. Resilienza, il non arrendersi che significa anche prendere le misure per quello che siamo davvero. Un luogo del nulla, un nulla di fatto come origine del vuoto che simboleggia la mio ascolto anche una certa rassegnazione. Eppure esiste la luce, come esiste il suono acustico dentro un disco di rock epico dalle venature digitali. Se brani come “Silente for You” rispolvera anche ballate pop decisamente più ordinarie, la formula synth e powerchord di “Dark” è sfacciatamente presa in prestito dagli svedesi più famosi Europe. I toni si rilassano dentro “Life” che quasi richiamano i più accomodanti modi pop rock alla Negrita fino a quando non si esplode e di nuovo sembra tornare evidente il fraseggio di “Jump” o come gli ostinati di chitarra nella title track richiamano l’inno famoso dei Survivor. E così via lungo tutto gli ascolti di 14 inediti che trovano uno strumentale davvero interessante in chiusa che poi si evolve nella sua seconda parte che è una canzone operistica direi quasi nei suoi quasi 6 minuti. I momenti acustici dicevamo: non possono mancare in un disco simile e devo dire che “Binari della folli” sembra il momento più alto in tal senso, la loro personalissima “More than Words”. Non mi fa impazzire mai un disco in inglese cantato dagli italiani se non di madre lingua o quasi. Non mi stuzzica questo rock che tanto deve a cliché ormai accademici. Sicuramente ad un esordio non chiediamo altro che di “vomitare” tutto quello che può sperando che da qui in avanti ci sia un lavoro di raffinamento e rifinitura. Avrei preferito certamente un rock più dedito alla sintesi che una produzione così “inutilmente” pomposa. E suona davvero bene nonostante sia la prima prova… segno che i nostri hanno le armi affilatissime. Penso debbano soltanto appoggiarsi meno alle spalle dei grandi e avventurarsi abbandonandosi un po’.