Per salire su un palco ed esibirsi da gruppo underground di fronte a un pubblico (quando c’è) ci vuole sempre coraggio. Ce ne vuole ancor di più quando quello stesso palco si trova in Italia e fai musica originale, invece che suonare in una tribute band. Se poi canti anche in inglese e proponi un sound che nulla ha a che vedere con la tradizione tricolore serve anche un sacco bello largo, dove mettere pazienza a volontà e resti di bocconi amari da mandare giù. I MantraM più che pazienza hanno passione, lo stimolo principale, forse l’unico rimasto per mandare avanti una band di questi tempi, se non suoni nei Green Day o nei Metallica. Loro sono in quattro, hanno casa base a Roma e squarciano la capitale con un alternative metal/post grunge di chiaro stampo americano mischiato a rock e metal di base. Terre quasi vergini per l’ascoltatore medio italiano.
Che i MantraM abbiano soprattutto voglia di suonare, senza ansie di arrivare, lo dimostra il fatto che sono in piedi da ben 12 anni: «Quando abbiamo iniziato eravamo sedici-diciassettenni – spiega Giovanni Lipford, chitarrista della formazione che insieme al cantante/chitarrista Daniele Russo, il bassista Matteo Marciano e la batterista Laura Colarieti compone la line-up della band – e non ci importava della difficoltà nel presentare un genere come il nostro in Italia. Abbiamo sempre suonato quello che ci piaceva proporre live». Sul discorso della scelta della lingua, inoltre, secondo la band non c’è adattamento tra cantati in italiano e sonorità nate oltreoceano.
Tuttavia non è sempre andato tutto liscio, tutto “rose e fiori”. Dopo aver pubblicato due demo (2003 e 2005) e l’album Silent Steps Outside (2007) i MantraM si sono presi una pausa di cinque anni, per poi tornare nel 2012 con un Ep, “Time To Run”. Tutto materiale autoprodotto, senza etichette alle spalle. E adesso? «Stiamo registrando un altro lavoro – prosegue Giovanni – dal titolo top secret, in cui ci saranno delle sorprese. E poi stiamo pianificando dei concerti in Italia e la nostra diffusione all’estero». Spedire nuovo materiale in America, se ben prodotto, non sarebbe una brutta cosa. D’altronde Matteo studia e lavora a New York: magari arriva la chiamata giusta, un giorno. Ma hai voglia a seminare, ancora e ancora.
Marco Reda