Un ascolto interessante, davvero interessante. Daniele De Matteis da anni ormai è radicato nella scena di quel noise digitale e di quelle produzioni che arrivano dai frattali computerizzati, mondi da cui si estrae musica da vedere. Parole forti ma, credo, mai abbastanza complete per raccontare cosa c’è dietro un simile lavoro. Lui fa il suo esordio con lo pseudonimo Soul Island e pubblica per Loyal to your Dreams questo “Shards”, appunto cocci volendolo tradurre in italiano. Musica digitale, anzi spaziale in qualche misura, landscapes ma anche voci corali e canti lontani. Un concept, se ci si permette il lusso di questa parola, dove si fa i conti con il degrado spirituale e culturale delle nuove generazioni, vittime e pedine ben gestite di una povertà mediatica che ormai è condannata quasi in ogni direzione. Nove scritture inedite, nove lisergiche esperienze che comunque non si distaccano mai da un punto di vista quasi “pop” rubando qua e la, forse, da quel certo modo di rendere spaziale il pop inglese anni ’80. Che poi è da li che ha avuto inizio il decadimento. E oggi raccogliamone i cocci.
Un esordio dopo aver rimescolato le carte in lungo e in largo. Dove sei approdato? Chi è SOUL ISLAND?
Il percorso è stato lungo e pieno di colpi di scena. Come ad esempio quello di scrivere un disco da solo e senza chitarra (quasi) venendo da un passato in trio power pop, scoprire ed appassionarmi ai synth analogici e far sudare il cervello. Soul Island è la manifestazione di idee e suoni che covavo da tempo, che finalmente hanno trovato un canale di sfogo. È la roba più autobiografica che abbia mai scritto, è il progetto di un ragazzo punk e emo ormai cresciuto che racconta sentimenti e punti di vista un bel pò più complessi di quelli tardo adolescenziali. È il racconto della mia crescita e delle riflessioni che ha comportato, sia intime che riguardanti il mondo la fuori.
Visioni da recuperare dentro un suono sospeso dai contorni sbiaditi. Un po’ come la cover di questo disco. Cosa mi dici?
Più che sbiaditi sono proprio frantumati. Appositamente. L’idea era quella di prendere le quinte di questo disco, Londra, New York, il mare, e raccontarli in un paesaggio allo stesso tempo bello e sofferto, come le esperienze che sono alla base dei pezzi e della musica. Curiosamente l’artwork è processato come se fosse musica, filtrato con delay ed echo. Volevo che venisse fuori quanto le emozioni di una persona possano confondere e rendere rumorosi i concetti.
Ci sono bellissimi momenti di viaggio come nella primissima “Loser Rev”. Insegui in qualche modo un pop tradizionale oppure è da lì che sei partito per andare verso altre derive?
“Loser Rev” è uno dei primi pezzi che ho scritto per questo disco, ed è per tanti versi una buona chiave di lettura per tutto il lavoro. Scrivendolo mi colpiva il fatto che fosse pop senza dover urlare o vincere facile, che fosse intimo. Il pop mi piace un sacco, nello specifico il buon songwriting, il fatto è però che a furia di ascoltarne, l’orecchio cambia e si stanca delle formule standard, consolidate. È un po’ come guardare il solito polpettone hollywoodiano, siamo così abituati che spesso sopraggiunge la noia. Penso per questo la mia risposta automatica sia stata di ricercare armonie e strutture che per me non sono banali, così come il mix di generi.
Quanta vita personale hai rinchiuso dentro queste tracce?
Direi soltanto vita personale. E pensieri. Curiosamente però parla poco di me in maniera esplicita, ho cercato di scrivere in maniera tale che fosse utile a chi ascolta.
E quanto peso hanno i suoni rispetto alle parole? Chi vince nel collage di sensazioni visive?
Sono entrambe fondamentali e non in competizione. Penso che si sorreggano a vicenda nonostante ci siano diversi momenti volutamente strumentali. La mia esperienza della musica è fortemente visiva, quindi c’è un vasto immaginario non sonoro in questo disco raccontato in parole e suoni.
Parliamo di questo video “Ocean”. Sai che la prima cosa che mi viene in mente è Matematica? Vettori più che altro…
Ok, interessante, al momento siamo così assorbiti dal digitale che ci dimentichiamo che non potrebbe esistere senza l’algebra di base! Ci raccontiamo sui social e messaggerie varie creando versioni di noi stessi che sono sempre discrete e parziali, frammentarie. Il video di David Chambriard è stato perfetto nel rappresentare quest’immagine, il messaggio del pezzo discretizzato dal medium e consumato da chi sta dall’altra parte, reale all’origine ma simulato a destinazione. I movimenti che diventano vettori, come il nostro impegno verso l’ambiente, potenziale e mai davvero reale (la traccia parla di questo…).