Dalle ceneri dei Mamavegas nascono gli Smalto, al secolo Matteo Portelli e Francesco Petrosino con un ingresso iniziale di Mr. Milk poi perduto lungo il percorso. E noi mettiamo in circolo questo disco dal titolo “Niente di serio” dentro cui la dimensione degli ultimi serve come monito e bandiera per tornare ad una dimensione del vero, delle cose importanti ma anche al lato umano e spirituale dell’uomo e della sua umanità. “Stiamo male e stiamo bene; osserviamo le relazioni in cui siamo immersi e cerchiamo nella musica e nelle canzoni il modo per esorcizzare le ansie e le preoccupazioni che queste relazioni inevitabilmente ci procurano, e per riderci su”… il sono acido del mood di periferia, dell’alternative italiano, dell’indie meno educato alle patinature.
L’evoluzione, anzi la tristezza di una separazione, poi la rinascita anzi l’esorcismo con leggerezza. Ci vuole “Smalto” per tutto questo?
Per noi sì, è stato questo! Suonavamo nei Mamavegas, che si sono sciolti all’inizio del 2019, ma già nel 2018 sapevamo che stavamo per smettere; chiudere un’esperienza di band di oltre dieci anni è dura, è un divorzio, è una rottura che fa male, e avevamo bisogno di qualcosa che ci facesse stare bene, che ci facesse superare questo momento, soprattutto dal punto di vista musicale, ma non solo. Suonare insieme non è solo suonare, è interagire, chiacchierare di canzoni, confrontarsi.. tutto questo ci sarebbe mancato troppo, quindi noi due, che avevamo un filo diretto all’interno della band già da anni, abbiamo deciso di mettere in piedi un progetto che ci permettesse di mantenere questa interazione, ma di farlo con leggerezza, sia come “stile” musicale, sia come approccio al progetto: poche aspettative, poca fretta, ma comunque con una dedizione enorme, e una grande cura nel fare le cose nel curarle e approfondirle, ma senza scadenze, senza pressione. Era, ed è, un gioco, una voglia di novità, appunto di “Smalto”. Ma poi ci sembrava che le cose funzionassero, che i pezzi avessero un loro valore, e ci abbiamo preso gusto…
Anche il titolo del vostro primo Ep in fondo sembra dire questo: perché “Niente di serio”?
Perché abbiamo imparato a non prenderci troppo sul serio, a renderci conto che quando ci divertiamo le cose ci vengono meglio. In realtà l’EP contiene temi che sono parecchio seri, abbiamo messo in queste canzoni veramente la nostra intimità, i testi sono profondamente legati a un percorso di terapia che uno di noi stava iniziando ad affrontare; ci sono le nostre ansie, le nostre preoccupazioni, le nostre riflessioni su aspetti importanti della vita e della crescita. Ma parlare di temi così importanti in modo poco serio, dandoci la libertà di scherzarci, ci permette di capirci meglio, di sdrammatizzare. E forse può dare anche a chi ascolta una chiave di lettura che secondo noi è fondamentale per molti aspetti della vita: prendere meno sul serio sé stessi e le cose che ci succedono intorno può veramente aiutare a stare meglio, sempre che ci si intenda sul fatto che questo non significa affatto avere meno profondità e complessità, anzi! Più a fondo si capiscono le cose più ci si può scherzare e giocare, il gioco è una forma di manipolazione della realtà che non dovremmo mai smettere di praticare! Ma comunque bisogna giocare con serietà, proprio perché è una cosa così importante, quindi anche noi nel realizzare queste canzoni, nate per gioco, poi ci abbiamo messo tutta la nostra cura e tutta la nostra professionalità..
In questo tempo assurdo dunque la musica e la leggerezza di pensarla e di concepirla in un certo modo è una possibile via di fuga?
Beh è anche un po’ la tesi di Colapesce e Di Martino, no? E il fatto che “Musica leggerissima” abbia avuto il successo che ha avuto forse qualcosa significa… La musica ha il potere di aprire strade imprevedibili, e di dare a ciascuno di noi risposte molto diverse alla stessa situazione. Quindi sì, una possibile via di fuga, anche se certamente non l’unica.. Per noi in realtà questa voglia di leggerezza era legata più a dei momenti personali, tra l’altro ancora non eravamo in pandemia, parliamo del 2018-2019 (non che non fosse anche quello un tempo assurdo eh, sono parecchi decenni che è un tempo assurdo!), ma poi quando è iniziato questo disastro del Covid avere questo canale aperto, questo progetto che era nato con quelle premesse di cui parlavamo è stato fondamentale per noi. Uno di noi ha uno studio di registrazione in casa, dove abbiamo realizzato tutto l’EP, e avere la possibilità di scendere una rampa di scale e mettersi a lavorare a queste canzoni era una valvola di sfogo indispensabile. Niente concerti, poche prospettive, molta preoccupazione, ma quando ci si mette a produrre canzoni con l’approccio che abbiamo avuto tutto questo passa in secondo piano. Ci siamo veramente divertiti a scrivere e produrre queste sei canzoni, e credo che questo divertimento sia finito nell’EP, che si senta, e che si senta quanto sia stato terapeutico per noi lavorare in questo modo.
Tantissima provincia, tantissima “normalità”, tantissima resistenza all’ordinario… ho trovato molto di questo nel disco, vero?
Verissimo. I testi vengono soprattutto dalla nostra componente di Battipaglia, e vengono, tra le altre cose, dalla necessità di relazionarsi con alcuni aspetti della vita quotidiana, con quel po’ di disillusione e di noia che la normalità e il “diventare grandi” ci portano. Il lavoro, la coppia, i figli, le routine, possono veramente diventare soffocanti se non si fa attenzione, e abbiamo avuto anche noi i nostri momenti di soffocamento. Una delle nostre canzoni nel ritornello dice “Forse m’ammazzo”, ma poi c’è un “o sei tu che ammazzi me”, che è il ribaltamento di cui abbiamo bisogno, è l’ironia terapeutica di cui parlavamo prima! Renderci conto che possiamo farci una risata su queste cose, renderci conto che magari anche noi stiamo soffocando qualcuno che ci sta accanto, sono cose che innescano delle riflessioni e dei meccanismi che possono veramente salvarci!
Tra l’altro per chi ha avuto i sogni di gloria e di conquista del mondo che inevitabilmente hanno i musicisti fare i conti col quotidiano a volte è difficile, è una cosa su cui riflettere parecchio, a cui applicare il meccanismo “Smalto”; perché poi nell’ordinario, nella normalità, così come nella provincia, c’è tantissima poesia, tantissima possibilità di emozionarsi e stupirsi, ma vanno cercate.. Come in una coppia, in un matrimonio: sarà banale ma lo stiamo sperimentando, bisogna avere immaginazione, creatività, profondità e capacità di ascolto per rendersi conto che in quell’ordinario c’è un mare di bellezza, se corriamo troppo, se smettiamo di cercare, ce le perdiamo, e almeno noi non potevamo veramente permettercelo!
Poi tutto questo si può applicare a sistemi un po’ più larghi, e riflettere sul nostro rapporto col quotidiano ci serve anche a capire qualcosa in più sulla società in cui viviamo, a immaginare forme di resistenza, di cambiamento. Cose di cui non abbiamo parlato esplicitamente in queste canzoni, ma che sono presenti come sottotesto
E restando sul tema, i due video che trovo in rete in fondo raccontano una storia simile o sbaglio?
Beh, di simile hanno l’ambientazione, che è la zona industriale di Battipaglia, e il regista, il nostro amato Andrea Campajola. E sì, sicuramente hanno molti elementi comuni, ma le storie sono un po’ diverse: In “M’ammazzo” c’è un po’ una trasposizione e personificazione di Smalto: c’è la fuga dall’ordinario di cui parlavamo, l’uscire fuori dal ritmo della fabbrica e dedicarsi con cura e lentezza a qualcosa di artistico, un murales nel video, che però raffigura la nostra musica.
“Noi non veniamo” invece è un piccolo documentario, con cui abbiamo voluto raccontare questa persona, Gerardo Tafuri, che vedevamo girare per Battipaglia da tanto tempo: Gerardo raccoglie ferraglie e le va a rivendere alla discarica, e tutto questo lo fa a piedi, con un carretto e un bidone. Si muove lentamente, alla periferia della periferia, trasforma rifiuti in un piccolo stipendio, con cui sostiene la sua famiglia; ci abbiamo visto una forma di resistenza alle storture della modernità, uno stare fuori dal ritmo frenetico della nostra società, una dignità estremamente poetica, che ci hanno colpito e commosso profondamente. Siamo andati a parlarci, ci ha permesso di riprenderlo e intervistarlo, ci ha raccontato di sé, ascoltarlo e portarlo in un nostro video è stata un’esperienza veramente importante. E quando abbiamo visto il video per la prima volta ci sembrava che le nostre parole, che erano scritte prima di pensare a questo video, si legassero perfettamente, ci sembrava di parlare con Gerardo, o di essere la sua voce.
Raccontateci dei suoni… cosa li ha ispirati? In qualche modo è stata la restrizione della pandemia a portarveli nel disco?
A dire il vero no, la pandemia è arrivata quando le canzoni erano già molto avanti come produzione e scelte; avevamo impostato tutto già nel 2019, e la linea estetica del suono che volevamo era già stabilita e avviata. Poi la fase di rifinitura, alcune cose che abbiamo rifatto da zero, il mix, sono state tutte cose fatte durante la pandemia, quindi magari qualche cosa ci ha influenzato. Sicuramente avere meno possibilità di immaginare queste canzoni in una veste da “mondo reale”, da saletta, da palco, da band, possibilità che inevitabilmente le restrizioni ci hanno negato, ci ha rafforzato nell’intento di usare solamente questo tipo di sonorità. Ma era già una scelta a tavolino, la scelta da cui è partito il progetto: fare canzoni in italiano e usando quasi solo l’elettronica; questo perché in parte è l’elemento con cui ci muoviamo meglio, in parte perché il suono elettronico, i synth, la batteria elettronica, le possibilità di manipolazione che questo tipo di strumentazione offrono, si prestano bene al modo in cui volevamo giocare con le canzoni. Si possono fare dei puzzle, si possono mischiare gli strati e i livelli nel modo in cui avevamo deciso di farlo, ed è anche uno stacco rispetto alla nostra band precedente, i Mamavegas, che erano nati sulle chitarre, anche se ultimamente l’elettronica era entrata sempre di più. Ma il suono dei synth ha una patina di colore più acceso e vivo, più Smalto, che con le chitarre o con strumenti più “tradizionali” forse non saremmo riusciti ad ottenere.