“Somewhere”, il nuovo album di Simone Vignola è uscito il 23 ottobre di quest’anno. Tra slap, tastiere elettroniche e chitarre acide è stato definito un album groove pop che, visto il calibro dell’artista, farà sicuramente parlare di sé.
Simone Vignola ha suonato tutti gli strumenti dell’album, l’ha missato e prodotto. Noi di ExitWell abbiamo parlato un po’ con lui per farcelo raccontare meglio.
Simone, il basso nella tua carriera da musicista ha un ruolo centrale. Volevo chiederti come è nata questa passione e quale percorso ti ha portato a diventare il polistrumentista solista che sei oggi
In realtà io sono un chitarrista mancato ! Il mio primo strumento fu una chitarra classica che mi comprò mio padre e con cui iniziai ad esercitarmi. Entrai a far parte del mio primo gruppo a dodici anni, suonavamo i Red Hot Chili Peppers e da quel momento mi sono avvicinato al basso e allo “slap”. Nel 2008, dopo anni di studio e live nei locali, ho vinto l’EuroBassDay ed è stato un traguardo molto importante che mi ha aperto le porte per dei live fondamentali per la mia carriera; come l’apertura ai Level 42 e Scott Kinsey ad esempio. Proprio in quel periodo ho iniziato a suonare molti altri strumenti creando la mia musica in autonomia grazie all’utilizzo della loop station. Ho notato che mi riusciva e sono diventato un one man band effettivamente.
Il tuo ultimo lavoro “Somewhere” è stato pensato ed eseguito interamente da te. Come ti muovi in sala e come riesci a gestire il processo creativo nell’utilizzo di strumenti differenti?
La centralità nella scrittura dei miei pezzi è sempre nel basso e quando scrivo mi piace ispirarmi a Sting e al suo genio nei Police. Un brano può iniziare da una linea di basso e proseguire con una batteria elettronica o una tastiera. Mi dedico molto anche alle partiture di chitarra cercando di suonarla come un vero chitarrista alla Andy Timmons e non come un bassista con in mano una chitarra!
“Somewhere” ricopre nei generi una moltitudine di sonorità differenti: ci sono riff di basso dance, batterie elettroniche, tastiere spesso jazz, un cantato pop. Alcune descrizioni lo etichettano come un album “Groove Pop”, ma qual è la tua personale visione e definizione del disco?
Sì, essenzialmente non mi piace ridurmi ad un unico genere. Nel mio passato ne ho suonati tanti e per questo mi piace lasciarmi influenzare da ogni ispirazione. Se mi chiedi una definizione ti rispondo che “Somewhere” è un album pop. Ho voluto comporre delle canzoni che fossero di facile ascolto, easy listening; mi piace pensare che un mio ascoltatore possa mettere su il mio disco anche mentre sta preparando da mangiare. Eppure, non è un album semplice nelle composizioni e architetture melodiche. Ci sono molti tecnicismi e fraseggi complicati; sono ben mascherati però. Il risultato sono dieci canzoni tecniche nell’esecuzione, ma pop nell’ascolto.
A “Somewhere” seguirà un tour di presentazione, preferirai orientarti verso il panorama nazionale o all’estero ? E che tipo di spettacolo live hai intenzione di proporre al tuo pubblico?
Sicuramente porterò “Somewhere” in tour come ho fatto per i miei precedenti lavori. Ho notato come il panorama musicale in Italia si stia facendo meno roseo, ci sono meno locali e meno innovazioni. Lo stesso EuroBassDay non c’è più. Mi piacerebbe suonare, anche per questi motivi, tanto qui in Italia, ma sicuramente anche all’estero. Penso a realtà come la Germania e il Giappone, nazione in cui ho anche un album all’attivo. Per quanto riguarda il set strumentale, nonostante io abbia già suonato con altre persone in una formazione a tre, vorrei poterlo presentare da solista. È un lavoro pensato ed eseguito interamente da me, per questo credo mi farò accompagnare dalla mia loop station. È il modo in cui riesco a esprimermi al meglio.
Oltre al premio EuroBass, hai vinto il BOSS loop station e si può dire che sei un valido rappresentante del mondo del basso nel mondo. Come mai quando parliamo di musicisti, il più delle volte, abbiamo la tendenza a fare riferimento ai grandi internazionali e dimenticare musicisti italiani?
Credo che qui in Italia il più delle volte ci sia un atteggiamento prevalentemente esterofilo. Cerchiamo di seguire quello che fanno gli altri, emulandoli, e allo stesso tempo non diamo ossigeno alle nostre numerose micro realtà. Nel mondo del basso, ad esempio, c’è una generazione intera di musicisti che ha cercato di suonare come suonava Jaco Pastorius e in pochi sono riusciti a creare davvero qualcosa di originale.
Penso anche al Jazz che è un genere musicale che, tradizionalmente, non è poi così vicino alla nostra cultura. Fu persino cancellato per un breve periodo storico. Eppure, nei conservatori si studia quasi esclusivamente Jazz.
Mentre per le piccole realtà, a volte, si ha l’impressione che quello che succede all’estero qui non accada. Una realtà metal in America dopo un po’ diventa il Metal, mentre qui in Italia è destinata a rimanere quella piccola realtà metal ed è un peccato che non ci sia questa normale evoluzione.
Gianluca Grasselli