– di Martina Rossato –
Simone Paladini è un cantautore romano classe ’94. Dopo un passato turbolento e l’esperienza nel duo rap Influenze Negative, ha deciso di cominciare a suonare il pianoforte e dedicarsi a un nuovo genere, esplorando sonorità più pop.
Il 3 novembre è uscito il suo nuovo singolo, “Luce Di Plastica”, un brano in linea con il primo singolo solista “Greta”, ma completamente diverso da quelli cui ci aveva abituati nel suo “periodo rap”.
L’ho raggiunto telefonicamente nello studio dove svolge il suo lavoro di tatuatore per parlare della sua evoluzione artistica.
Quindi fai il tatuatore! Da sempre?
Diciamo che il mio lavoro è questo. Anche la musica è un lavoro, ma è un mondo un po’ complicato.
Be’, sicuramente è un mondo particolarmente difficile. Una delle domande che volevo farti è proprio questa: ho letto in una tua intervista che fai musica fin da piccolo, ma quando ti è venuta l’idea di fare musica nella vita?
Sì, ho cominciato a fare musica da piccolo. La prima volta che ho portato la mia musica fuori dalla mia cameretta per farla diventare pubblica avevo circa quattordici o quindici anni, non ricordo di preciso. Ho iniziato perché avevo avuto varie discussioni con i miei amici, con la mia prima ragazza, ero un po’ il “coattello” del gruppo [ride, ndr]. Mi sono sentito male in quella situazione, direi quasi umiliato e per un periodo mi sono chiuso in me stesso, poi invece mi sono ripreso e ho cominciato a voler dimostrare qualcosa agli altri. Insomma, è stato dopo un periodo molto solitario che piano piano ho cominciato a tirarmi fuori e la musica è stata un’ancora di salvataggio.
E prima di quel momento?
A undici anni avevo fatto il mio “primo disco” [ride, ndr]. Mi ero messo a registrare con il microfono delle cuffiette, in cameretta con un amichetto mio. Ora che ho ventisette anni, mi rendo conto che da sedici anni a questa parte la musica ha sempre fatto parte della mia vita.
Adesso lo voglio sentire questo disco che hai fatto a undici anni, eh, se no non vale! Quali generi facevi all’inizio?
Sarebbe veramente imbarazzante! Comunque, per rispondere alla tua domanda, ho iniziato col rap, mi avevano regalato “The Slim Shady LP” di Eminem. Per me lui era un dio sceso in terra e mi è stato di grandissima ispirazione.
Invece quando è successo che cambiassi genere? I tuoi ultimi due singoli sono molto pop.
Il mio è stato un cambiamento prima di tutto a livello personale. Nel periodo in cui facevo rap ho vissuto esperienze particolari, anche con la droga. Sono arrivato a stare male, come altri miei amici; a uno “non ha detto bene”, come invece ha detto bene a me. Arrivato a quel punto, mi sono reso conto che stavo, stavamo, esagerando. Mi sono messo un freno e ho cambiato stile di vita. Da “pipistrello” che ero, ho allontanato la mia vita notturna, ho ripreso i ritmi normali del giorno e della notte. Adesso al posto di uscire la sera magari me faccio ‘na tisana caa camomilla [ride, ndr] e facendo uno stile di vita più sano, è cambiata anche l’intenzione con cui faccio musica.
È stato un processo lungo o è successo in un momento?
In realtà, credo che sia stato Cesare Cremonini a farmi cambiare genere. Ti spiego: nel mio fare rap c’è sempre stato il cantautorato in sottofondo. Avevo sempre sentito Cremonini, insieme ad altri, come Renato Zero e De Gregori, però non li avevo mai davvero ascoltati con attenzione. Mi è capitato di ascoltare i vecchi album di Cremonini, i primi che ha fatto da solista, e mi si è aperto un mondo. È un mentore, per me: da quando mi sono appassionato a lui, è stato veramente breve il salto al cantautorato. È grazie anche a lui che ho cominciato a suonare il pianoforte!
Pensavo lo suonassi già da prima!
No, no, lo suono solo da due anni.
Mi ha colpita nella canzone la frase: «Le risposte vengono quando non le cerchi più». A cosa ti riferisci?
Mi riferivo al fatto che nella vita cerchiamo sempre una risposta a tutto, ma poi mi rendo conto che siamo sempre troppo di corsa. È nel momento in cui ci calmeremo e impareremo a vivere il presente che forse ci tornerà tutto più chiaro. Se una cosa la vuoi veramente, se ti appartiene, prima o poi ti torna.
Come è stata la sensazione quando è uscito il singolo?
Non vedevo l’ora! La canzone era pronta da molto tempo, il mio problema principale però è che sono perfezionista e super autocritico. Nel lavoro in studio, nella produzione, in ogni fase, ho cercato di fare tutto il meglio possibile. Avevo paura che non uscisse come volevo veramente e che non avrebbe soddisfatto le mie aspettative. Per tutti questi motivi è stato liberatorio, quando è uscito.
Liberatorio e soddisfacente o liberatorio e basta?
Soddisfacente, 100%. Non solo dal punto di vista musicale: lo vedo come un grande traguardo per me stesso. Ho lavorato con me stesso e sto cercando di essere meno critico nei miei confronti. Sono veramente soddisfatto.
Volevo farti una domanda sul titolo: il pezzo è nato nel periodo del lockdown, in cui ci siamo tutti un po’ chiusi in camera, con la lampada a fare luce sulla scrivania. È per quello che la luce è “di plastica”?
Esatto, l’idea è proprio quella. Ma non solo: ho passato molto tempo nella mia cameretta, con la tastiera che avevo comprato per imparare a suonare. È una tastiera elettronica e quindi il suono del piano era molto metallico, si sentiva che era una roba artificiale. In più, quando mi mettevo davanti alla finestra e suonavo, guardando fuori, avevo sempre una lampadina accesa alle mie spalle che si rifletteva nel vetro. “Luce Di Plastica” era proprio la voglia di fuggire da quella situazione di chiusura, per tornare a respirare un po’ di libertà. Il brano infatti fa riferimento alla luna, al cielo, alle stelle.
Infatti, si sente molto quest’idea di libertà! In questo brano poi mi sembra di percepire un file rouge con “Greta”, il tuo primo singolo solista.
Sì, c’è assolutamente un filo conduttore tra i miei brani. Tra l’altro, “Greta” non è altro che il nome che io ho dato alla mia ansia. I due brani sono collegati, prima è stata scritta “Greta” e poi “Luce Di Plastica”, ma più o meno stavo vivendo lo stesso periodo, che è stato molto intenso.
Tornando ancora più indietro di “Greta”, vorrei chiederti com’è lavorare da solo. Quando facevi rap eri nel duo Influenze Negative, cosa è cambiato per te?
In realtà, prima di fare musica con altre persone, ho cominciato facendo rap da solo. Poi siamo diventati un duo e, dopo aver provato entrambe le esperienze, ciò di cui sento molto la mancanza è il lavoro di gruppo. Avere la carica di un’altra persona, che poi è un tuo amico, è molto importante. La cosa che mi appaga moltissimo invece è che posso scegliere al 100% la produzione, ovviamente quando si è in due, come in qualsiasi altro rapporto, bisogna un po’ adattarsi.
Progetti per il futuro?
Non lo so, ti direi una cazzata [ride, ndr]. Ho molto materiale, ma non so ancora quando né come farlo uscire!