Il nuovo album dei Sick Tamburo nelle parole di Gian Maria Accusani
– di Roberto Callipari –
Ci sono dischi e artisti che quando arrivano sanno sempre smuovere qualcosa. I Sick Tamburo di Gian Maria Accusani sono una di quelle realtà di culto nel nostro Paese che hanno questa grande attitudine comunicativa, sapendo coniugare musica, intrattenimento e spettacolo a contenuti in grado di parlare a tutti.
L’ultima uscita della band di Accusani si chiama “Non credere a nessuno” – uscito il 21 aprile per La Tempesta dischi – ed è un album, ancora una volta, estremamente denso di concetti ed emozioni, che lascia poco spazio alle interpretazioni e si manifesta via via che lo si ascolta.
Abbiamo raggiunto allora l’autore di questo nuovo lavoro durante le prove per poter parlare un po’ del disco che si appresta a portare in tour, per far ancora più luce, se possibile, sulla scrittura e i contenuti del nuovo album dei Sick Tamburo.
“Non credere a nessuno” è l’ultimo lavoro dei Sick Tamburo. Ti va di raccontarci come è nato e com’è stato scriverlo?
Il disco è nato in un periodo per tutti abbastanza difficile, gli anni della pandemia. Sono stati anni rubati ma in cui abbiamo avuto tutto il tempo riflettere anche sulle difficoltà che i tempi recenti ci hanno presentato. Nel mio caso, quei due anni sono stati anche un periodo in cui si sono aggiunte cose personali ma sempre di estrema difficoltà, che mi hanno portato a vivere una profonda riflessione che si è legata moltissimo alla mia scrittura. In quest’ottica, l’album vuole rappresentare un viaggio nell’animo umano, nell’esistenza di ognuno di noi, ed ogni traccia è come se fosse una tappa in questo percorso obbligato che è la vita.
C’è quindi una canzone che parla delle perdite, ce n’è una che racconta le prime esperienze spericolate, una racconta gli abbandoni, una le deviazioni, e così via fino ad arrivare all’ultima che è la canzone del Commiato con la C maiuscola, quello della vita. Quindi sì, possiamo dire che l’album va molto a fondo nella vita.
Come mai è stato intitolato “Non credere a nessuno”?
Oltre ad essere il ritornello di una canzone presente nell’album, “Suono libero”, “Non credere a nessuno” è da parecchi anni – e ancora di più negli ultimi due anni – un mio motto personale. Per me è ormai piuttosto scontato dover ascoltare chiunque, con volontà e piacere (e questo indipendentemente da chi mi trovi davanti, da un clochard al più grande luminare del mondo), ma prendendo sempre per vero e per buono solo quello che posso provare su di me.
Credo nell’empirismo come via per l’apprendimento, infatti sono anni che dico sempre di ascoltare tutti ma non credere a nessuno. Ognuno poi può seguire la direzione che vuole, e se è giusta lo capisce da sé e continua in quella direzione. Sono convinto che la conoscenza debba essere sempre legata all’esperienza, perché non è possibile essere legati soltanto alle nozioni che arrivano dagli altri, perché non si è consolidata in te, ma è semplicemente intellettuale, non la sento vera.
Un disco certamente introspettivo, molto introspettivo, ma a chi parla? A chi è destinato?
Essendo un viaggio nell’esistenza umana, come ho detto, credo che possa parlare a chiunque. Penso ci si possa rispecchiare facilmente in alcuni di questi passaggi, tanto che, da subito, appena uscite le canzoni e i singoli (e poi anche quando è uscito il disco), mi sono arrivati molti messaggi di persone che dicevano “Cavolo ma sono io quello lì!”, che poi è il più bel complimento che si possa ricevere quando scrivi una canzone.
Una cosa che non passa inosservata è sicuramente la collaborazione con Roberta Sammarelli dei Verdena nel brano “Per sempre con me”. Come è nato questo featuring?
Con Roberta siamo amici da tanti anni, e negli anni del Covid ci avvicinati ancor di più, probabilmente a causa della situazione particolare in cui ci trovavamo, soprattutto quando ci siamo resi conto di quanto i nostri gusti musicali fossero simili.
Ricordo che venne a vedermi due anni fa quando facevo uno spettacolo che si chiamava “Da grande faccio il musicista”, in cui raccontavo un po’ del mio percorso nel mondo della musica e suonavo canzoni che avevano a che fare con quello che raccontavo. Alla fine dell’esibizione ne abbiamo parlato e ci siamo resi conto di essere musicalmente molto molto simili.
Col tempo poi, mentre scrivevo il nuovo album, è venuta fuori “Per sempre con me” – che non ero molto convinto di inserire nel lavoro finale, quindi le ho scritto chiedendole un parere, perché, come ti ho detto, ero incerto sul destino del brano (considera che io chiedo sempre un feedback a persone di cui ho stima), e lei dopo l’ascolto mi ha risposto “Beh guarda, mi piace molto, come tutte le robe che fai”. Così mi ha fatto contento e allora le ho proposto di cantarlo con me, e ne è nata la versione che oggi sentiamo.
Nell’album c’è un grande tema che traccia la via per una grande varietà di argomenti, ma anche una grande varietà sonora.
È stata una scelta quella di produrre tanti suoni così diversi o una cosa arrivata in maniera più naturale, magari concomitante ai testi?
No, non credo siano molto legate ai testi. Credo che il suono sia quello tipico dei Sick Tamburo, la nostra melodia caratterizzante coi riff di chitarra mescolati all’elettronica, in cui, ovviamente, abbiamo aggiunto qualcosa di sempre nuovo, ma se mi chiedi come sono arrivate, se proprio devo trovare una motivazione, credo sia stato tutto abbastanza spontaneo e naturale. Anche perché quando arriva una cosa nuova la prendo sempre come viene, la accolgo se sento che è il caso di farlo.
Nell’economia di un disco che ha un suono così vario e diversificato c’è comunque un pezzo che suona molto diverso, forse eccezionale rispetto al resto dell’album, ovvero “Certe volte”.
Sì, quello è molto diverso dal resto. In realtà è un brano scritto diversi anni fa che non aveva ancora trovato posto in un album, per quanto ci avessi provato, perché è molto strano.
Ma questa volta, sai, con tutto quel discorso legato alle tappe della vita e alle esperienze che una persona può fare, il brano sembrava essere al posto giusto, finalmente. E se suona in maniera differente, così tanto differente, è perché in realtà non ci sono gli strumenti “standard”: sì, c’è la batteria, ma c’è anche la tuba e strumenti più da orchestra. È un brano particolare, di tempo fa, che finalmente ha trovato il suo posto.
Parlando di tutti parli anche molto di te, una cosa che ne “Il colore si perde” si capisce e viene da chiedersi quale sia il colore che tu hai perso.
Beh quella è una metafora che parla di tempo, del tempo che passa e nel suo percorso trasforma e muove tutte le cose. Questa immagine del colore che sbiadisce calzava a pennello, con il colore che non è più lo stesso e noi che non possiamo far altro che accettarlo.
Un’altra cosa che è difficile non notare, di te ma come di altri autori (penso ad esempio a Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti), è che spesso, parlando ad un’altra persona nelle vostri canzoni, tendete a rivolgervi ad una donna, ed è una cosa che succede spesso anche in questo tuo lavoro.
Da dove arriva questa scelta, se è una scelta?
Intanto è un discorso di abitudine, perché da che ho cominciato a scrivere canzoni ho sempre scritto al femminile. Se ci pensi anche nel gruppo precedente [Prozac+, ndr] tutte le canzoni erano scritte per una donna, e quelle le scrivevo io, quindi diciamo che è un fatto naturale.
Poi sono arrivati i Sick Tamburo e anche qua la voce era prevalentemente femminile, quindi forse anche questo mi porta ad avere una tale attitudine alla scrittura. Poi se penso al fatto che sono cresciuto prevalentemente con donne in casa, con la mamma e la nonna, in un contesto in cui era per me più normale rivolgermi ad una donna, allora mi viene da dire che potrebbe anche essere un fatto di educazione.
Parlando ancora di vita, “La stanza che resta” dà l’impressione di essere un brano che la racconta nel profondo.
Credo si capisca abbastanza bene infatti. La stanza di cui parlo è quella in cui tutti siamo e in cui tutti dobbiamo arrivare, ovvero la vita, e questo è un po’ l’emblema di tutto il disco. Tutti entriamo in questo posto, e tutti, piano piano, dobbiamo andarcene, dobbiamo lasciarlo, e la nostra uscita porta a un altro ingresso, ad altre persone. La vita, semplice.
Dopo una carriera tanto lunga quanto intensa, com’è ancora produrre un album e suonare dal vivo?
Sono le uniche due cose che mi fanno sempre e comunque felice: scrivere e registrare. Mi fa star bene andare in giro a suonare, quindi finché provo questa roba qua è ovvio che continuerò a farla.