Già anticipato da “cose belle” e “107 (opinioni)“, venerdì 13 dicembre 2024 è uscito su tutte le piattaforme digitali (in distribuzione Believe Music Italy) il nuovo singolo dei P L Z, dal titolo “ricchi dentro“. Un nuovo capitolo per il duo senza volto di stanza a Milano: un’anima pulsante techno pop, una creatura luminosa dalle venature cantautorali che, come uno spettro, vedevamo aggirarsi per la scena musicale già dal 2021, quando uscì l’album di debutto “M E G A“, e che ora (finalmente) è di ritorno con un nuovo disco in uscita nel 2025.
L’immagine di copertina creata da Emanuele Ferretti, che ha curato anche le copertine dei precedenti singoli, incarna perfettamente il misto di rabbia e voglia di tenerezza che anima il brano, fra picchi di esaltazione e cadute nella disillusione, in cerca di quel tocco amorevole che ripristini una qualche forma di equilibrio.
Abbiamo avuto la fortuna di intervistarli, facendoci ospitare nel loro studio ai confini del mondo. Non si sono tolti la maschera neanche per un minuto, e questo è quello che ci hanno raccontato!
Di chi sono le voci che sentiamo all’inizio del vostro ultimo singolo “ricchi dentro”?
Sono dei sample presi dal doppiaggio di una vecchia telenovela sudamericana che spopolava nell’Italia delle prime tv commerciali: “Anche i ricchi piangono”. Siamo partiti dallo spulciare di quella serie a caso scene su YouTube, capitando su questo scambio di battute improbabili, a metà fra un vecchio Almodovar e un thriller mal riuscito, e ci si è aperto un mondo di associazioni e reminiscenze sonore.
Come possiamo immaginarci una vostra “normale” giornata in studio? E come si arriva ad un brano finito?
La nostra giornata tipo va così. Si comincia tardi, si finisce tardi: non siamo molto mattinieri, nonostante tutti i buoni propositi. Si parte da un input di testo, da un titolo o un verso; più frequentemente da un suono (a volte un preset preso così com’è, come per 107), da un pattern, un beat o un giro armonico/melodico. Lavorare su cose nuove ci galvanizza: entriamo in uno stato ossessivo compulsivo per cui la maggior parte delle volte le idee, quelle buone, si concretizzano nel giro di uno o due giorni. Giacomo e io siamo abbastanza complementari da ridurre tempi morti e discussioni: quando lui ammattisce su una cassa o un compressore, io entro in trance sul divanetto (insomma dormo e sogno pecore elettriche); mentre io cazzeggio su un testo o su un synth, lui intanto sta ricablando l’intero Supermoon Studio.
Com’è avvenuto il vostro primo incontro? I vostri lavori e la vostra vita “normale” ha un impatto positivo o negativo sul progetto dei PLZ? Riuscite ad essere amici, al di là del vostro progetto insieme, come PLZ?
Con Giacomo ci conosciamo da tempo, da quando suonavamo insieme negli Egokid. Col tempo ci siamo ricavati uno spazio per scrivere e produrre insieme, perché entrambi interessanti a esplorare linguaggi più elettronici. La nostra vita normale ci porta ad ottimizzare molto il tempo che dedichiamo al progetto: il che non è nemmeno male perché limita i voli pindarici e ci costringe a porci obiettivi realistici, quei famosi paletti che rendono meno velleitario il tutto. Quanto alla nostra amicizia, se non ci fosse quella, oltre alla reciproca stima, non saremmo ancora qui a fare musica insieme.
In che cosa, riscontrate una sovrabbondanza nella società di oggi? E nella musica?
C’è una sovrabbondante pretesa di autenticità che stride con l’effettiva proposta culturale: così sul piano della società (ma forse dovrei dire, sul piano social, l’unico a sembrare rilevante), come su quello musicale. Siamo saturi, di musica, di sogni, di frustrazioni, di meme e posizioni identitarie. Quella fluidità di cui tanto si parla, spesso a vanvera, si è ridotta a uno scialbo espediente estetico, a una pretesa etica che lascia il tempo che trova e che non cambia nemmeno le condizioni di vita materiale delle persone interessate. Finita la sbornia, la girandola di podcast, post e pamphlet digitali, si ritorna tutti al paesiello, con le unghie e le maschere infrante.
Come sono cambiate le cose, dai tempi di “MEGA”, il vostro disco di debutto?
“MEGA” è stata la fotografia di un progetto che andava definendosi in fieri: i pezzi erano più slegati proprio perché frutto di diversi momenti compositivi, quando ancora non avevamo chiara la direzione. Quello che è cambiato è che ora siamo più consapevoli di quello che vogliamo dire e di come dirlo. Il prossimo disco è stato composto in stato di grazia per quanto riguarda la relazione artistica fra noi due: ora dobbiamo attraversare le dune e le sabbie mobili di uno spazio angusto allestito dai mercanti.
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