– di Angelo Andrea Vegliante –
L’ipervelocità ha colpito tutti, nel bene e nel male. Siamo più frettolosi, ansiosi e iperattivi, meno pazienti, calmi e indulgenti. La musica, pure lei, è stata invasa da un motore rapido (quasi) inarrestabile, che impone hit su hit da collocare un po’ ovunque, alle volte senza esprimere un vero target di riferimento. Ma si sa, la musica è bella perché è varia, e quindi ci sta. Tuttavia, certificare ogni singolo e ogni autore come genio indiscusso di un tempo dove manca una cultura sonora identitaria sembra un’operazione intellettualmente arzigogolata.
Come riporta un recente numero di Sette, l’inserto del Corriere della Sera, nei primi 6 mesi del 2019 “la FIMI ha certificato 333 singoli d’oro e 272 di platino”. Abbiamo un’abbondanza di canzoni di successo, con ben “605 medaglie al valore”. Un’esplosione maturata nel corso del secondo semestre del 2018, quando le certificazioni si attestarono a 213, a fronte delle 63 del semestre precedente. Rendiamoci conto della nostra ‘fortuna’: ogni giorno, da gennaio a giugno, abbiamo avuto 3 o 4 brani di successo. Viene da chiedersi, però, quali siano effettivamente questi brani e cosa s’intenda realmente con il termine ‘successo’.
Un tempo, quando ancora le attività streaming erano inesistenti, le classifiche televisive e radiofoniche rendevano il disco d’oro e di platino un premio irraggiungibile ai più, auspicabile solo a chi, per mesi, restava ancorato ai primi posti delle svariate (ma ristrette) Top Chart. Oggi, invece, l’esplosione online, l’interesse minore per la televisione e l’ascolto disinteressato della radio hanno modificato radicalmente il nostro modo di interfacciarci anche solamente a una singola canzone.
Sul banco degli imputati – strano a dirlo -, salgono le playlist. Questa nuova modalità di fruizione della musica ha capovolto e ridisegnato la nostra relazione con la musica, oltre alla sua interpretazione. Il mare sonoro si è espanso a tal punto da divenire un oceano così da grande da richiamare leve discografiche (indipendenti e non) che vivono unicamente nella Rete. Un abile gioco di specchi che ha consegnato lo scettro del potere al conteggio di visualizzazioni e ascolti streaming, guadagnando punti per ottenere oro, platino e zirconi senza passare dal via.
Tuttavia le playlist hanno creato una merce molto liquida e poco pragmatica. Le opere, oramai, attecchiscono poco all’orecchio dell’ascoltatore, sempre più attratto dal navigare verso nuovi brani prima che verso nuovi artisti. Va da sé, dunque, che una canzone avrà vita corta, circa tre mesi se tutto va bene, e lascia in giro briciole di pane che non colmeranno la fame del pubblico. E qui, dove tutti sembrano sfamare tutti, ogni artista ottiene un disco d’oro e di platino, d’emblée, senza troppi fronzoli o proclami interessati.
Così, se lui vince quello, lei vince lo stesso, quell’altro vince e anche l’altra vince, non ci resta da chiedersi se abbia ancora senso certificare l’arte in tal modo oppure serva una riqualificazione complessa del giudizio all’ascolto. In sostanza, bisognerebbe proporre un nuovo sistema di accesso alle posizioni più alte della classifica, che sappia discerne l’autentico ascolto dall’ascolto lemme lemme. Cioè, un altro modo per qualificare cosa sia esattamente una hit da cineteca e cosa sia un brano qualunque, con tutte le sfumature del caso.
Senza togliere nulla alla capacità artistica dei protagonista, altresì non è pensabile di vivere in un momento storico pieno di gloriose menti e voci eccelse della musica italiana e internazionale. L’esponenziale crescita delle possibilità, forse, ci ha privato del gusto di saper giudicare il contesto in maniera colorata. Inevitabilmente, siamo giunti a un paradosso contemporaneo – che non riguarda solo la musica: o tutti sono degli eccelsi pittori o dei geni incompresi.
Sostanzialmente, l’involuzione musicale a cui partecipiamo ha cambiato enormemente i connotati di cosa sia canonicamente eccelso, mediocre e deprecabile. O ci sono quelli bravi o ci sono quelli che fanno pena. Un sistema di paragone riduttivo che ha reso ‘anti-prezzolato’ il valore dell’oro e del platino, in funzione di un’industria musicale che risponde più alle logiche del marketing rispetto a quelle artistiche, facendo perdere consistenza a una delle più importanti branche umane della nostra vita.