– di Michela Moramarco –
Sale, nome d’arte di Eugenio Saletti, è un giovane cantautore romano che lo scorso 26 novembre ha pubblicato il suo secondo album, che si intitola “Un eterno inutile presente”. È costituito da dieci brani che racchiudono una profonda riflessione sul significato della parola tempo e, parlando più in generale, dell’entità temporale in sé.
Si può intuire un’intrinseca astrattezza del concetto di tempo, poiché anche il presente, il quale fluisce subito in passato, dopo essere stato futuro, sembra eterno. Ne deriva una parvenza di contraddizione, eppure nei brani di Sale il presente è pensato come un momento in cui tutto può cambiare in maniera irreversibile o rimanere uguale a sé stessa, almeno in apparenza. Il titolo di questo album è quindi l’essenza di ciò che le dieci tracce vogliono raccontare, ovvero il modo in cui il presente risulta eterno talmente tante volte che appare quasi inutile pensarlo.
Ascoltare questo album significa scontrarsi con quella sensazione che si prova quando si è seduti a guardare l’orizzonte e ad aspettare qualcosa che distolga dalla monotonia, che sia una melodia o addirittura l’arrivo di un’altra canzone. Non solo: “Un eterno inutile presente” è caratterizzato da una profondità che potrebbe indurre a pensare alla propria condizione di vuoto interiore, assimilabile al momento in cui si fissa il movimento delle onde del mare, così ostinate, così eterne, da risultare in apparenza sempre uguali a sé stesse.
Il disco di Sale è quasi disturbante nei contenuti, ma si potrebbe pensare che sia un album-specchio, in cui ogni ascoltatore può leggere quello da cui si sente meglio rappresentato. Dal punto di vista sonoro, l’album è ben arrangiato, i suoni si mescolano bene fra loro a determinare uno stile decisamente cantautorale. L’album si discosta dalla tendenza pop del cantautorato attuale e per questo è l’ascolto è un’esperienza valida. Si tratta forse di un disco disilluso, che forse scade anche nel cinismo, ma mai nella retorica. Quindi è un album maturo, consapevole, promettente. Sostanzialmente caratterizzato da testi introspettivi che possono riguardare sia l’individuo che la collettività, è propriamente condivisibile.
È da notare infine un altro significato fondamentale di questo album, oltre il valore del tempo: parliamo quindi del valore salvifico della musica e dell’amore per la stessa. La musica spesso può risultare come l’unica entità capace di portarci indietro nel tempo o almeno di illuderci di questa possibilità. La musica sembra quasi fermare il tempo ed è quell’entità che appare quindi come quel modo di attribuire un senso al tempo. La musica viene finalmente a configurarsi come quella formula logica con cui poter capire la chimica delle trasformazioni instabili e totalmente imprevedibili del tempo.
Non mancano in questo album momenti di maggiore solarità, come per esempio nel brano “Una canzone” che risulta leggermente più luminosa ma coerente con quanto appena affermato sull’atmosfera generale dell’album. Il brano sembra sposare una certa tradizione cantautorale romana di fine decennio Novanta. Questo aspetto non dispiace.
Infine, che una canzone possa salvarci la vita resta una speranza, languida forse, ma che può costituire comunque un punto di partenza.