Quando non si è soddisfatti di come appaiono le cose, nulla è più piacevole della controtendenza. Proprio questo è il sapore de Il primo grande caldo, album dato alle stampe dai Runa Raido. In primo luogo per l’elevata caratura contenutistica dell’opera, in un periodo in cui le band cosiddette indipendenti sembrano fare a gara per conquistare l’audience con qualsiasi mezzo, tranne che il valore puramente artistico della propria produzione. Secondo per la cura dei testi, espressione di un punto di vista lucido e implacabile sulla realtà dei nostri giorni, anche qui in aperto contrasto con il diffuso disimpegno delle attuali liriche nostrane. In ultima istanza per il sound, potente e compatto, essenziale e coinvolgente, che vanta una produzione di tutto rispetto – quella del Kutso Noise Home – e che lo fa spiccare tra le tante e tante produzioni lo-fi di anacronistici nostalgici dell’autoradio.
Il caldo, il calore, la passione, manco a farlo apposta sono i temi ricorrenti. Si parte dal titolo dell’opera (quanto mai profetico vista l’ondata di afa giunta di colpo, in ritardo ma inesorabile), per poi passare attraverso brani quali “Al tempo dei fuochi” e la languida “Estate torna”. Ma anche il colore del package, di un accattivante giallo canarino che ha caratterizzato sapientemente tutta la linea grafica della band successivamente al disco. Non mancano infine gli accenni alla politica ed i temi scottanti: “Buone maniere” è un ritratto accorato dell’Italia odierna, dove il politico viene visto come l’ospite indesiderato di una metaforica tavola da pranzo (“togli i gomiti dalla mia tavola, libera il posto, paga il tuo pasto”); “La domenica delle salme” è una cover nuda e cruda del magnifico pezzo di De André.
Su tutti spiccano “Michele” e “Il primo caldo”, brani senza mezzi termini in cui i due cantanti si avvicendano e si uniscono, sussurrano e ruggiscono di rabbia, raccontando storie di quotidiano dramma e pulsioni represse.
Runa Raido, il suono compatto della controtendenza.
Matteo Rotondi (Discover)