– di Assunta Urbano –
LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INTERVISTA!
Nel corso della tua carriera hai collaborato con moltissimi artisti, sia in studio che in esibizioni dal vivo. Così come la tua penna ha firmato brani di altri cantanti. Ne verrebbe fuori un elenco lunghissimo a citarli tutti. Che tipo di approccio creativo c’è quando stai dando forma a qualcosa di tuo e quale nel caso in cui sia destinato a qualcun altro? Invece, che differenza c’è sul palco nel momento in cui porti il tuo progetto e quale da turnista di tuoi colleghi?
Ti rispondo dividendo due forme che riguardano la musica, ma sono molto diverse. Da una parte quella compositiva e dall’altra quella di musicista. Nel primo caso devo dirti che a me è sempre capitato di scrivere canzoni per me e pensando di doverle cantare io. Poi mi è successo di cedere dei brani ad altri artisti e sono diventati un loro cavallo di battaglia, ma non sono uno che si mette a scrivere a tavolino per qualcun altro. Onestamente: è una cosa che mi fa molto piacere; vedi un tuo figlio che va lontano. Come musicista, adoro la collaborazione. Quando suono con qualcun altro, è un tipo di comunicazione, è la possibilità di parlare con le persone, imparare insieme. Invece, quando lavoro sulle mie cose, ho uno stress enorme, che mi fa amare questo mestiere, ma anni fa mi ha fatto capire che ognuno ha una sua strada. Vivere, sbagliare, stare male per qualcosa e bene per qualcos’altro. Mi sono reso conto che non mi piaceva essere messo al centro. Oggi giro a 360 gradi e sono sia al centro, sia circondato da realtà corali. Questa condizione mi fa stare in equilibrio ed essere felice.
Un percorso di crescita interiore.
Certo, poi penso sia ovvio per tutti i mestieri e le passioni. Quando si è piccoli ed inesperti si creano determinate aspettative, ma quando hai la fortuna di fare ciò che vuoi ti rendi conto di tanti dettagli. Il concetto di successo non è oggettivo, ma soggettivo, ha tante sfumature.
Beh, se vogliamo parlare di successo, dipende da quanto tempo hai.
Proprio per questo mi sono fermato! [ride ndr]
Nell’ultimo anno sei stato e sei ancora adesso tra i pochi fortunati che riescono a suonare live, anche se la realtà televisiva è di gran lunga diversa da quella concertistica. Come vivi musicalmente questa esperienza a Propaganda Live?
L’unica cosa che manca realmente è l’empatia con il pubblico presente. È meraviglioso interagire con gli ospiti, artisti, musicisti. Mi sento fortunato. È un misto di piacere e dispiacere, perché ovviamente intorno a me ci sono tanti amici che non lo stanno facendo. Il calore della gente è qualcosa che manca tanto un po’ a tutti. Ora a Propaganda Live abbiamo davanti le sagome e ci siamo abituati a questa cosa. Non ci si fa quasi più caso, ma l’empatia con le persone non è restituita, come è ovvio immaginare. La scorsa estate c’è stata una parentesi di pseudo normalità musicale. Con le dovute attenzioni, alcuni concerti si sono svolti ed è stata un’emozione particolare.
Torniamo all’immagine del condor. Questo animale, tra i più grandi uccelli in grado di volare, insieme al testo del brano, potrebbe far pensare ad un desiderio di fuga e soprattutto di libertà. Secondo il tuo punto di vista, un musicista da cosa scappa e da cosa dovrebbe scappare? Quali sono, invece, i “motivi per restare”?
In fondo, questo animale non è simbolo di libertà nella canzone. Paradossalmente è il contrario. La trasformazione in un condor è come quello in una iena. Ha un’accezione negativa, anche se non vuole andare in profondità. È una cosa da sorriso sulle labbra. Nella canzone cito in particolare le 4:00, come orario in cui mi “trasformo”. Adesso non siamo più abituati a quell’orario, ma la canzone è stata scritta prima della pandemia. “All’epoca”, facevamo tardi, si arrivava ad un certo punto della notte in pochi in sala alle serate e un po’ tutti ci trasformavamo in condor alla ricerca di prede, incapaci di ragionare. Un’immagine che mi ha fatto parecchio ridere.
Per tornare alla tua domanda, credo che chiunque faccia il musicista viva questo circolo di scappare e restare. Si può restringere, allargare e rappresenta la vita. C’è la fase di scrittura, che ti vede sedentario, tra casa e studio di registrazione. Non vedi l’ora di partire. Vai a suonare dal vivo, cominci a girare e quasi rimpiangi la tua casa. Insomma, quest’alternanza incredibile ti permette di tenere vivo un entusiasmo, che bisognerebbe applicare anche alle altre cose della vita. La routine porta l’essere umano ad impazzire. Per questi motivi adoro il mio mestiere.
“E il resto si vedrà domani”, così canti nella canzone. Ti abbiamo visto quasi diciotto anni fa nella versione di “Gattomatto”, oggi in quella di “Condor”, ma guardando al futuro, in quali vesti vedremo trasformarsi Roberto Angelini?
Inaspettatamente c’è un altro animale nel prossimo disco! [ride ndr] Non me ne ero accorto, ho iniziato a pensarci proprio parlando del pezzo con la gente. Quello che ancora non so è se si tratterà o meno di un prossimo singolo.
In tutta sincerità, “Gattomatto” nel 2003 ha inevitabilmente segnato la mia vita, nel bene e nel male. Mi ha fatto conoscere il successo più mainstream e lo ringrazio perché mi ha fatto capire che molte cose di quel mondo non mi appartenevano. Mi ha dato lo stimolo per ricominciare a costruirmi un percorso che mi ha portato ad oggi. Non posso nasconderti che l’ho odiato per un po’ di tempo, ma piano piano ho cominciato poi a farci pace. Quando ho iniziato a lavorare con Diego Bianchi, prima per Gazebo e poi per Propaganda, mi hanno talmente preso in giro a riguardo; l’abbiamo così tante volte riarrangiato e cambiato, che l’ho visto con altri occhi. È proprio un gatto che ha sette vite! Adesso gli voglio bene, è diventato un mio amico, sta con me da vent’anni. Vedremo il condor quanto inficerà nella mia vita, ma non credo lo farà più del gatto.