Eponimo disco per Richard J Aarden, folksinger italo olandese che ci regala un viaggio suggestivo dentro un disco che si copre di nebbia e si tiene sospeso, in bilico dentro immagini non definite, sfocate… impressioni istintive di un folk morbido, raramente viscoso, dentro cui navigare a vista con emozioni ed impressioni. “Richard J Aarden!” è forse uno degli ascolti più immersivi e interessanti tra i tanti “arrivi” che ho sulla mia piccola scrivania. Peccato per questa dimensione non fisica del suono…
Meravigliose tinte di infinito. Questo sarà il titolo di questa intervista. Come nasce questa musica in una Italia omologata e dedita al pop quasi in ogni sua deriva?
Premetto che butto sempre l’orecchio al pop e a quello che passa in radio. Ho una serie infinita di bozze di canzoni anche in italiano che meglio si potrebbero inquadrare in quel mercato. Magari un giorno le svilupperò e le farò sentire a qualcuno. Ad ogni modo in questo momento non sento quelle sonorità vicine a me e a questo mio progetto. In primis faccio musica che mi piacerebbe ascoltare e il pop di cui parli non è mai il mio primo ascolto, nonostante non lo disdegni.
L’America, ma anche le terre di confine… penso molto ai The Low Anthem. Ispirazioni e dischi portanti per queste scritture?
Non conosco i The Low Anthem, li vado a sentire sicuramente. Non sono esterofilo ad ogni costo, anzi. Ho degli artisti che ammiro molto in tutte le nazionalità e che sono fonte di ispirazione. Sono più orientato all’Europa che all’America. Negli ultimi anni ho fatto ascolti a trottola nei generi più diversi andando a prendere e segnarmi sempre qualcosa per ogni ascolto fatto. Comunque, per citare un disco, è stata per me importantissima la scoperta di Magic Chairs degli Efterklang.
Parliamo della copertina. Niente penso sia a caso. Come lo leghi al disco eponimo che ascoltiamo?
Dopo il lockdown ho cominciato a riapprezzare gli spostamenti in bicicletta ed è incredibile quanto sia piccola Milano.
Mio zio dall’Olanda mi ha regalato questa bici oversize che sembra un cavallo e pesa 1 tonnellata ma è diventata la mia compagna da quando si sono riaperte le gabbie. Associo quindi la bici ad una nuova libertà e ci tenevo che diventasse anche la fotografia del disco. C’è poi anche un simpatico e piccolo riferimento alle cadute di Ban Jan Ader, che un amico mi ha fatto scoprire qualche anno fa.
E poi perché non hai scelto un nome? O forse il tuo nome, la tua vita, è il vero riassunto di tutto?
Ci ho pensato tanto a che nome dare al disco ma non trovavo mai nulla che potesse dare il giusto peso a tutte le canzoni. Questo disco è il riassunto di un percorso fatto finora e mi rispecchia così tanto che la soluzione più sensata era dargli il mio nome d’arte.
In “Somewhere I Feel Free pt. I e pt. II” ci sento molto le derive di Bon Iver. E qui l’elettronica fa la sua comparsa. Che momento è della tua vita?
È un momento molto bello. L’elettronica è un fil rouge presente in tutte le tracce del disco in realtà, l’unica totalmente e volutamente acustica è Wicker. La melodia della voce di “somewhere…” l’ho scritta almeno 10 anni fa. È di ispirazione tribale ed era pensata per essere cantata da un coro, o con una voce profonda, quasi abbaiata. Il pezzo si chiamava Honu Sun, di quella matrice elettronica/strumentale che facevo tanto agli inizi. È rimasta nel cassetto una vita fino a quando non mi son deciso di metterla a terra.
Un video ufficiale? A quando?
Non appena si concretizzano le idee.