– di Sara Fabrizi –
Arrivati al sesto album, esplorati e superati i confini del cantautorato classico, forgiato ex novo la figura di rocker italico, ammiccato alle tendenze e lusinghe commerciali, chi è il Vasco Rossi di Bollicine?
Di sicuro un amalgama di sfrontatezza e sentimentalismo recidivo, una continua tensione fra il personaggio, ormai anche piacione e sguazzante nei lustrini degli 80s, e la persona ancora fragile e scarna e tormentata.
Questo ragazzotto, sempre più calato nella sua immagine pubblica ma ancora saldo nelle sue origini di ribelle ex sessantottino ferito, fa tesoro e incetta delle tendenze musicali del nuovo decennio, ne fagocita gli arrangiamenti scintillanti complessi e ruffiani. Ci mette su le sue liriche di solito tormento, ribellione, irriverenza, scandalo (ma anche dolcezza) ed ottiene un grande album. Bollicine è perfetto.
Quasi un concept album, uniforme, omogeneo pur nella sua varietà interna. Dai brani rock e infuocati alle ballad percorriamo il disco ormai certi di cosa troveremo, come se ne conoscessimo le linee guida. Il nuovo che ci faceva trasalire nei precedenti album ora è diventato consueto. Una bellissima consuetudine, da gustare fino in fondo. Il brano di apertura è la title track. Mitico inno a lasciarsi andare agli eccessi, che siano di una bevanda o di una droga poco importa. Oggetto di fraintendimenti, di richiami perbenisti e addirittura di azioni legali da parte della nota multinazionale.
Senza sapere che si stava facendo pubblicità (ma non gratuita!) a tutti i soggetti nominati. E il tutto prendendo in giro quelle stesse logiche commerciali che rendevano possibile un’operazione del genere. Un pezzo che è un perfetto calarsi nei propri tempi, metterne in luce marcio ed illusioni, cavalcarle a proprio favore. Grandioso. Arrangiamenti più eighties che mai. Con tastierone, chitarre potenti e assolo di sax. Caratteristiche che ritroveremo, in diverse dosi, anche negli altri brani. Dopo questo incipit arriva la balladona di turno.
Una Canzone Per Te si riallaccia, come da copione, a quell’animo romantico che abbiamo ormai imparato a conoscere. Bella, intima, profonda. Non come le ballad meravigliose dei primissimi album. Dolce a suo modo, già intrisa di ricordi, illusioni, cose non dette. La donna cui è dedicata, come Vasco stesso ha confessato, è la stessa di Albachiara. Ora non più una ragazzina. “Sorridi e abbassi gli occhi un istante, poi dici non credo di essere così importante, ma dici una bugia infatti scappia via”. Melodia dolce, avvolgente. Chitarre delicate e batteria appena accennata ci conducono nella parte centrale del brano dove il sax fa decisamente il suo, dando un sapore agrodolce al tutto. Un ritornello che è un lamento, una tenera confessione di un amore taciuto. Dopo tanta delicatezza i toni si alzano decisamente col terzo brano.
Portatemi Dio è pieno di rabbia e sana irriverenza. Frutto della ribellione all’educazione cattolica (ipocrita) che ognuno di noi ha ricevuto. Gli arrangiamenti sono un vero manifesto del decennio, hanno fatto scuola. Come accade anche in Deviazioni, altro brano simbolo dell’epoca. Uso sapiente delle tastiere elettriche e liriche infuocate contro ogni perbenismo. “Credi che basti avere un figlio per essere un uomo e non un coniglio!”.
Anche Giocala si colloca su questa falsa riga. A riprova che si tratta di un album con una forte omogeneità interna. Qui c’è un monito, gridato alla Vasco maniera, a cogliere l’attimo, a vivere ora, a non avere rimpianti. “Corri e fottitene dell’orgoglio, ne ha rovinati più lui che il petrolio, ci fosse anche solo una probabilità, giocala, giocala, giocala!” Magistrale utilizzo dell’assolo di sax che riporta apparentemente la calma, sottolineando l’amarezza mista a propositività che permea tutto il pezzo.
Ma questo è anche l’album della sanremese Vita Spericolata che gli regalerà il penultimo posto ma, come c’era da aspettarsi, diverrà un inno, un manifesto delle intenzioni di chi, come lui, si adagia negli anni 80 cercando di cavalcarne l’edonismo più totale con non pochi problemi di adattamento (in fin dei conti tutti venivano da un decennio molto diverso). Una ballad ruffiana, un lento ammiccante, che inizia con toni sommessi per poi salire a dichiarare il comune destino di questi ragazzi che vogliono “una vita piena di guai”! Chitarre e batteria accompagnano le liriche confessionali di questo rocker che mentre grida “voglio una vita che se ne frega di tutto sì” tradisce ancora le sue origini di ragazzotto fuori posto, di fragile cantautore di provincia.
Ultimo Domicilio Conosciuto è una critica a chi bandì le radio libere, un brano contro un provvedimento liberticida. Echi settantini, se non altro per il tema e per l’impegno. Arrangiamenti, invece, uniformi a quelli degli altri pezzi dell’album.
A chiudere il cerchio è Mi Piaci Perché. Nessuna concessione al buonismo, ai mezzi termini e al politically correct (che all’epoca era sconosciuto). Mentre descrive una figura di donna vista nelle sue caratteristiche più sensuali (e “scandalose”) dà una frecciatina al romanticismo di maniera. Da non leggersi assolutamente come un testo che mercifica la figura femminile (oggi vi monterebbero su un caso nazionale) ma come una deriva di schiettezza figlia di quei tempi, di sicuro meno ipocriti di quelli attuali.