– di Sara Fabrizi –
Colpa D’Alfredo è l’album dove lo spirito dissacratorio, l’irriverenza, lo stile graffiante di Vasco esplodono.
Se i germi di questa sua cifra stilistica erano in nuce già in Non Siamo Mica Gli Americani è solo in questo album che la sua figura di rocker “fuori di controllo” si concretizza. Ne deriva un disco registrato in session molto brevi e fulminanti. È tutto accelerato e schizzato, i testi, gli arrangiamenti, lui. Con la solita concessione al romanticismo della ballad, qui superba.
Un punkrocker, un cantautore, un hardrocker. Vasco in Colpa D’Alfredo è tutto ciò, eppure non si esaurisce in queste definizioni. È qualcosa di più e di nuovo. È una figura totalmente inedita nel panorama musicale italiano. Il rock, di certo, c’era già stato nei 70s con la gloriosa stagione del prog. Ma era mai esistita una reale figura di rockstar? Anche gli esponenti delle più blasonate ed innovative rock band italiane non furono mai veri rockers. Musicalmente potevano incarnare la ribellione e la rottura col passato, melodico, italiano, ma a livello umano non si liberavano di quell’aura rassicurante e traditional, non comunicavano quel groove sensuale (nell’accezione più ampia del termine) che li rendesse minimamente assimilabili ai musicisti del mondo anglosassone.
Ecco, Vasco è stato decisamente il primo vero rocker nostrano. Sintetizzando in sé molteplici sensibilità e poi cortocircuitandole nella sua scanzonata, scandalosa, figura. In Colpa D’Alfredo tutto ciò è ascoltabile e talmente palese che l’album diventa la sua prosopopea.
Vasco diventa l’incarnazione viva e pulsante di ognuno degli 8 brani. Ad aprire è Non L’Hai Mica Capito. Allegra dedica ad una ragazza che si corteggia. Spensieratezza su un riff ricorrente e cori, a cura del grande chitarrista Massimo Riva, entrati decisamente nell’immaginario collettivo. Non incisiva ma accattivante all’ennesima potenza.
Forse serve a portarci rilassati e ben disposti verso la mitologica title track. Colpa D’Alfredo è adrenalina, batticuore e inno intergenerazionale di tutti gli sfigati del mondo. Di tutti noi, insomma. Io non riesco ad ascoltarla se non in loop, con i brividi e con un sorriso liberatorio. Quell’intro di chitarra delicato con la voce che parte piano per raccontare questa storia che si consuma in un locale, tra speranze di rimorchiare la bella di turno e consapevolezza che a volte si interpongono ostacoli fra noi e l’oggetto del desiderio. Diamo la colpa all’amico Alfredo che ci ha fatto perder tempo così che lei è andata via con un altro. Linguaggio esplicito, “è andata a casa con il nero la troia”, che gli valse rogne e censure. Poco politically correct, ok. Ma quanta spontaneità realistica in tutto questo? Io credo che certi “azzardi” andrebbero tollerati, se funzionali a raccontare una storia così viscerale. Le chitarre salgono pian piano e si vanno a schiantare sull’elettrica e poi sul moog (grazie come sempre, Curreri) che accompagna il racconto. Poi i colpi di batteria che scandiscono la parte centrale della narrazione, mentre la voce si lamenta sarcasticamente dell’accaduto. Ed ecco che l’elettrica fa di nuovo il suo ingresso e sale insieme alla batteria. E così fino alla fine, insieme al moog in una coda strumentale decisa e reiterata che poi dissolve sui colpi finali di batteria.
Ma questo è anche l’album di Susanna, brano dal sapore decisamente country rock e assolutamente godibile. Già l’intro con un inserto parlato da una fantomatica radio USA ci fa capire “l’americanità” del pezzo. Ed ecco subito le chitarre country accompagnate dalla batteria che poi sfogano in un deciso rock’n’roll alla Jerry Lee Lewis. E la voce e i cori, tra urletti vari, raccontano di questa ragazzina tutto pepe. Così a ripetizione, che vien voglia di ballarla fino a che la batteria non ne decreta, secca, la fine.
A seguire Anima Fragile. Importante, vistosa, concessione al romanticismo struggente e meraviglioso del primo album. Ballad gemma in un album rockettaro. Interamente suonata al piano, magistrale esecuzione di Gaetano Curreri. Vasco delicato e commosso racconta di questo amore perduto ponendosi interrogativi retorici e dolorosi. Pianoforte e voce salgono insieme fino a urlare quel ritornello “E la vita continua anche senza di noi, che siamo lontani ormai da tutte quelle situazioni che ci univano, da tutte quelle piccole emozioni che bastavano, da tutte quelle situazioni che non tornano mai.. perché col tempo cambia tutto lo sai, cambiamo anche noi, cambiano anche noi, cambiamo anche noi e…” Poche canzoni riescono a far vibrare così le corde dell’anima. Sulla tematica, nota e anche abusata, dell’abbandono, Vasco e Curreri ricamano una melodia meravigliosa, straziante e catartica. I toni quasi disperati e i pianti, sì possiamo vederli, si smorzano poi in una coda di pianoforte che tende a riportare la calma suggellando un mesto finale.
Il brano successivo è Alibi. Deciso cambio di registro rispetto al precedente, a testimonianza della forte eterogeneità dell’album. Tutto di basso, Vasco racconta questa storia presumibilmente ispirata ad un fatto reale. Si parla di un arresto, della questura. Siamo nel 1980, gli anni di piombo, la strategia della tensione, non sono ancora solo un ricordo. Vasco non può non riallacciarsi alle tematiche calde della sua contemporaneità, come già aveva fatto nei 2 album precedenti. Fra tante storie personali una doverosa concessione al clima sociale del Paese.
A seguire l’hard rock di Sensazioni Forti. Sezione ritmica martellante e decisa per questo inno alla sregolatezza. Inserti di elettrica scatenata e poi ancora un basso che la fa da padrone per l’intero pezzo. Così fino alla fine.
Tropico Del Cancro è un brano dolce. Una simil ballad con un andamento scandito dall’acustica, da colpi di batteria e da un moog effect di fondo. Un testo di impronta quasi messianica, si parla di questo uomo dai capelli lunghi “mai nessun’altro lo vide più, dice che è in America e che non vuole tornare più..”
A chiudere l’album è la punkettara Asilo Republic. I bambini dell’asilo che “stanno facendo casino” è una metafora con chiaro riferimento al movimento studentesco del ’77 che riportò in evidenza le tematiche di emancipazione e liberazione dal sistema che erano state già il cuore del ’68. Vasco sembra quasi volgere uno sguardo sarcastico, se non di disapprovazione, verso i moti rivoluzionari di questi ragazzi casinari sollevando il dubbio sulla sincerità delle loro lotte, se non si tratti in definitiva di una posa, di un giocare alla rivoluzione. Registro punk non solo a livello musicale, quindi, ma anche a livello contenutistico. Demolire. In questo caso “la moda” del mettere tutto a ferro e fuoco. Un Vasco maturo che, venuto da quegli anni di contestazione, riesce a fare dei distinguo. Un altro interessante aspetto della sua poliedrica personalità umana ed artistica.