– di Luigi De Stefano –
“Lucio Battisti Vol. 4“ è il quinto album di Lucio Battisti (niente, non ce l’ho fatta a resistere alla tentazione).
Eppure in questa frase c’è l’intero senso dell’esistenza del disco. Il cantautore aveva infatti appena dato il benservito alla Ricordi per migrare verso la Numero Uno, etichetta discografica fondata dagli stessi Mogol e Battisti assieme ad Alessandro Daldello, Franco Colombini e Carlo Donida, altri autori in rotta con la casa madre.
La Numero Uno nasce nel 1969, e inizia a pubblicare lavori di artisti importanti come la Formula 3 o Bruno Lauzi. Nel 1974 viene ceduta alla RCA Italia, diventando di fatto un semplice marchio, per il quale incideranno comunque artisti del calibro di Ivan Graziani o – in tempi più recenti – volti noti della scena indie come Colapesce & Dimartino, Iosonouncane o La Rappresentante di Lista.
Nel mezzo, alcune delle pagine più importanti della nostra storia musicale contemporanea, tra cui i primi album della PFM e – soprattutto – quelli della sua gallina dalle uova d’oro: Lucio Battisti da Poggio Bustone.
Quest’ultimo è legato alla Ricordi da un crescente risentimento dovuto a scelte editoriali da lui non supportate, non ultima quella di posticipare l’uscita di “Amore e Non Amore“ perché ritenuto non abbastanza commerciale. Purtroppo però anche da un contratto, che lo costringe a incidere materiale per loro fino al settembre del 1971.
Non è il primo né sarà l’ultimo caso di attriti – a volte vere e proprie guerre – tra artisti e case discografiche, armate di clausole siglate con eccessiva leggerezza o sotto il peso della necessità. E così ci ritroviamo sepolti da pessime auto-cover di grandi successi del passato, o spettatori increduli di scene paradossali, come Prince che negli anni ‘90 tenta di cambiare il suo nome in un simbolo, o Van Morrison che – in un giorno del 1967 – entra in studio e decide di improvvisare in una sola sessione 31 orribili “canzoni”, quelle che per contratto deve alla Bang Records, tra testi improbabili e una chitarra sempre più scordata.
Battisti teme che logiche a lui del tutto aliene gli impediscano di seguire la propria inclinazione artistica, e che le sue idee più innovative restino al palo, con il timore di vederle superate da qualcun altro. Così alla prima occasione disponibile saluta tutti e si trasferisce nella casa discografica della quale era già da tempo azionista.
Ricordi non perde tempo, e appena un mese più tardi dà alle stampe l’ennesima raccolta di materiale già edito, l’ultima a contenere brani mai apparsi prima di allora su un long-playing.
In futuro riproporrà lo stesso canone fino allo sfinimento in tutte le forme possibili, un’operazione un po’ subdola, ma comprensibile da parte di chi ha perso una vera e propria macchina da guerra, anche se questa ha già vinto molte delle sue battaglie più memorabili.
I pezzi “essenziali”, ossia quelli non presenti su nessun altro 33 giri di Lucio Battisti sono di fatto solo 4 dei 10 che compongono l’album.
Uno di questi risale addirittura al 1966, ed è nientemeno che l’esordio vocale del cantautore, ingaggiato – come si usava all’epoca – per realizzare una cover di “Adesso Sì”, brano di Sergio Endrigo presentato al Festival di Sanremo dello stesso anno. Il pezzo era stato pubblicato su una compilation laconicamente intitolata Sanremo ’66, ma era perlopiù passato inosservato. La versione di Battisti è abbastanza fedele all’originale, e rappresentava forse un tentativo di mettere alla prova quel ragazzo dalla voce così atipica.
Il secondo venne pubblicato come singolo assieme all’album, e si tratta di “Le Tre Verità”. Sul lato B la famigerata “Supermarket”, forse perché anche quella vedeva Lucio impersonare tre diversi personaggi.
La storia anche qui riguarda un tradimento, e non mancano le deboli spiegazioni della ragazza fedifraga, nuovamente interpretata in falsetto. Il tono però è tutt’altro scanzonato: il protagonista, ferito e umiliato, sa che sarà l’unico a soffrire per l’accaduto. In un crescendo strumentale caccia via l’ex compagna e l’ex amico. Non servono più parole, basta solo il tagliente suono delle chitarre elettriche.
Le altre due costituivano un singolo pubblicato nel maggio dello stesso anno. Sul lato B c’era “Insieme a Te Sto Bene”, un pezzo che Alberto Radius definirà “hendrixiano” nella scrittura, aggiungendo che è particolarmente amato da chi lo interpreta, perché lascia molta libertà di espressione al musicista, e può essere suonato ogni sera in un modo diverso, nonostante la cosa più memorabile (a mio avviso) sia senz’altro il riff di chitarra doppiato vocalmente dallo stesso Lucio.
Sul lato A invece forse l’unico motivo per il quale comprare “Volume 4”: avere su LP “Pensieri e Parole”, uno dei brani più riusciti e più amati dell’intera carriera discografica di Battisti.
Tre mesi al numero 1 della hit parade italiana, disco più venduto del 1971. Lo stesso autore la considerava al tempo la sua migliore composizione. In un iconico videoclip, Battisti si sdoppia per interpretare le due linee che si intrecciano nella strofa, l’incalzante “che ne sai” e la malinconica “conosci me”. L’inciso è un altro classico istantaneo: incredibili intuizioni melodiche che si inseguono, si replicano a vicenda, e infine si riuniscono per chiudere una pagina indimenticabile della nostra canzone.
Il pezzo parla di quel viaggio in Inghilterra di cui si accenna brevemente. Contiene alcune delle immagini più vivide della poetica di Mogol, e racconta un amore giovanile finito troppo presto. L’incomprensione, l’impossibile scontro – così crudele da accettare per un ragazzo – di due mondi troppo distanti.
“Volume 4” non venderà moltissimo: troppo poco quello che mette sul piatto (di fatto un pezzo “nuovo” minore e una rarità, neanche composta da lui), e soprattutto troppo impietoso il confronto con la prima pubblicazione di Lucio Battisti con la Numero Uno.
“La Canzone del Sole” è forse l’unico brano in Italia che è in grado di cantare a memoria chiunque abbia una voce, e di suonare chiunque strimpelli uno strumento.
La – Mi – Re – Mi dall’inizio alla fine, eppure ancora una volta una strofa, almeno due bridge, ritornello e coda: tutto così perfetto, così “giusto”, che è stato impossibile prevenirne la sovraesposizione. Trasmessa milioni di volte, intonata davanti a centomila falò, “La Canzone del Sole” è ormai un pezzo che i più si limitano a sentire. Ma se invece la si ascolta, si rivela altro: un giardino fiorito di idee musicali, cesellate magistralmente dai fedelissimi di Lucio, in procinto di lasciarlo per iniziare la loro epopea del rock progressivo.
Sul retro, “Anche per Te”, dolce ballata in cui Mogol impreziosisce la struggente melodia con la storia di tre figure femminili: una suora, una prostituta e una madre, che dividono la vita tra il dono che hanno avuto e quello che sono state costrette a lasciare alle spalle. A queste se ne aggiunge una quarta, un uomo che vorrebbe fare qualcosa per loro, ma non sa come, e si rassegna a lasciare che le cose seguano il loro corso, metafora – spiegò lo stesso Rapetti – della sua sofferenza nel vedere di non poter dare qualcosa in grado di raggiungere tutti.
Nel marzo successivo la Ricordi fa valere la sua opzione per un ultimo brano che le sarebbe dovuto da Battisti, e dà così alle stampe “Elena No”, un rock leggero ma molto gradevole, con un’interessante sezione mediana. Tuttavia nessun artista nel pieno della carriera lascia un capolavoro nel cassetto, specialmente se è l’ultimo “assegno di mantenimento” che deve al suo ex coniuge.
Una porta si è appena chiusa alle spalle, ma quella di fronte sembra foriera di promesse non meno importanti. Inizia così la seconda fase della carriera di Lucio Battisti.