– di Luigi De Stefano –
La prima uscita con la Numero Uno, La Canzone del Sole, è stata un successo clamoroso.
Tuttavia, quando ti chiami Lucio Battisti, e hai scelto per la tua casa editrice un nome ancora più impegnativo, le attese non possono che essere alle stelle.
Damiano Dattoli, ex bassista di Lucio (a cui si deve anche la scrittura di un monumento come “Io Vagabondo” dei Nomadi), raccontava che all’epoca, ogni volta che c’era da lavorare su un suo singolo, era diviso tra la sincera ammirazione per il genio compositivo di Battisti e la convinzione che non potesse continuare a lungo su un livello così alto: che prima o poi sarebbe arrivato un’inevitabile flop.
Tuttavia il cantautore di Poggio Bustone è letteralmente “on fire”, come direbbero gli americani, e in effetti il fuoco è quasi un trait d’union dell’album, a partire dalla copertina, una foto scattata da Cesare Montalbetti in cui il (pericoloso) incendio di vecchi mobili doveva simboleggiare l’integralismo (inteso come volontà di non scendere a compromessi) dei due autori: una fiamma che purifica e dà forza.
Umanamente Uomo: il Sogno è un titolo che – pronunciato oggi – non desta particolari reazioni, ed è anzi perlopiù sconosciuto a chi non sia fan accanito della discografia battistiana. Per cambiare le cose basta però accennare che “il carretto passava…”, e allora tutti sono in grado di proseguire a memoria.
I Giardini di Marzo, singolo estratto dall’album, è la prova che (se mai negli anni successivi si sia poi davvero spenta la vena creativa di Battisti), quella commerciale è ben lungi dall’esaurirsi.
I fasti sono sempre quelli che dal pop radiofonico poi abbracciano il rock made in Italy. Solo che ad ascoltarlo bene, per questo nuovo giro di giostra, Gray sfoggia anche parecchie soluzioni dai toni americani… che tanta della sua storia personale arriva proprio da questa parte di mondo. Esce per la Jetglow Recorgings, “Sogni e…
Il brano per certi versi ricorda un po’ Pensieri e Parole, con l’elegante melodia in minore che si risolve in un inciso arioso e memorabile, l’ennesima pietra miliare della musica leggera italiana.
Le parole di Mogol sono un acquerello della sua infanzia, e sono quindi intrise di quella vita che l’arte non può imitare, ma solo limitarsi a descrivere, con la poesia che solo mani esperte sanno tracciare su carta. Il ragazzo che si vergognava di vendere i libri all’uscita di scuola è cresciuto, ha lasciato indietro paure e indecisioni, ed è pronto a lanciarsi nell’avventura della vita. Impossibile non vedere un parallelo con le vite del duo di autori, ormai autonomi e perfino in procinto di diventare vicini di casa.
L’album, nonostante la scelta di non sfruttare il nome del suo brano più rappresentativo, viene pubblicato nell’aprile del 1972 e vende una vagonata di copie.
Difficile pensare che gli acquirenti ne siano rimasti delusi, a partire dalla canzone che apre il lato B, e che compone l’altra metà del singolo schiacciasassi. Comunque Bella sceglie un tono sommesso e una melodia appena accennata, per poi aprirsi nell’ennesimo azzeccato ritornello, con l’ingresso fragoroso della strumentazione.
Poi c’è E Penso a Te, brano del 1970 assolutamente geniale nella sua semplicità, nel suo essere riflesso di milioni di esistenze, e persino nel suo essere così facilmente parodiabile e parodiata.
Il pezzo è alla sua terza incarnazione, dopo le interpretazioni di Bruno Lauzi prima e di Mina poi. Eppure, nonostante i grandi nomi, nonostante il ritardo, è quest’ultima versione quella che tutti ricordano. Sarà che non importa quanto sia brillante o preciso il cantato di Battisti, perché a fare la differenza è ancora una volta il sentimento: quello che chi si limita a interpretare, per quanto meravigliosamente capace, non potrà mai cogliere nella sua forma primigenia.
Spariscono gli ottoni, e al loro posto c’è quel “paraparapappara” che in un istante ti porta seduto sul letto accanto a Lucio Battisti, che compone strimpellando la chitarra e intanto immagina suoni e partiture future, il giorno in cui quel brano in inglese maccheronico sarà ripulito e infine stampato su un vinile.
Altro classico minore è Innocenti Evasioni, pezzo entrato nell’immaginario collettivo per il tema trattato e il modo in cui musica e parole contribuiscono a creare un vero e proprio film.
La prima strofa racconta l’attesa dell’incontro proibito: il silenzio della casa inframezzato dal basso pulsante e da una sensuale chitarra elettrica che affiora qua e là, piccole fioriture che vellicano l’immaginazione dell’ascoltatore.
Poi entrano gli strumenti uno dopo l’altro, quasi a simboleggiare il completamento dei preparativi: il fuoco, lo Champagne in frigo, le luci rosse e il giradischi.
Eppure, quando sembra che tutto sia perfetto, arriva un qualcosa a metà tra uno special e un ritornello: una melodia scherzosa che prima sembra farsi beffe delle impacciate scuse del protagonista, raggiunto a sorpresa dalla sua compagna, e poi finge di credergli, facendosi triste quando gioca la carta della vittima desiderosa di calore e della vicinanza del suo amore “ufficiale”.
La seconda strofa torna sensuale: non sarà quella prevista, ma comunque in casa c’è una presenza femminile da coccolare. Poi il panico: la musica si svuota e restano le percussioni, il battito delle nocche sulla porta e quello frenetico del cuore del latin lover di provincia: nel 1972 non hanno infatti ancora inventato gli SMS, e l’innocente evasione si è presentata come da accordi. In qualche modo il nostro eroe convince la ragazza a ignorare l’accaduto, e si lancia in un finale privo di parole. Non rimane più nulla da dire, solo giocare con la voce mentre scorrono i titoli di coda.
Gli altri brani sono tutti un gradino abbondante al di sotto.
Il migliore è Sognando e Risognando, un tentativo di fondere il classico pezzo Battistiano basato sul cambio delle dinamiche con delle sonorità più vicine alla quasi-jam di Dio Mio No. Brano gradevole, ma che non decolla davvero mai, neanche al culmine: l’intervento di una voce femminile (in realtà non particolarmente gradevole) che incita il protagonista ad affrettarsi per non mancare al suo incontro.
Il Leone e la Gallina è poco più di un divertissement, una sorta di filastrocca affrontata con evidente leggerezza sia dall’autore della musica che da quello del testo. Una graziosa sigla da cartone animato, in un paese che – tra l’altro – si apprestava ad affrontare il suddetto genere con grande impegno e serietà.
E poi due strumentali. La title track è un pezzo per chitarra e archi, dove la melodia viene prima fischiettata e poi canticchiata dallo stesso Battisti. In anni recenti è comparso un testo scritto all’epoca da Mogol per la canzone: parole molto belle, anche se per metrica e accenti sembrano difficilmente sovrapponibili a quello che si sente. Mistero.
Mogol d’altronde dimostra di voler dire la sua, di non voler apporre ciecamente la sua firma in pezzi nei quali non crede. Così, quando Battisti gli presenta un (sinceramente mediocre) esperimento sonoro tra vetero-psichedelia e krautrock, si rifiuta di lavorarci, e alla richiesta di fornire almeno un titolo, suggerisce “Il Fuoco”. Un rimando alla copertina, ma soprattutto (lo dichiarerà lo stesso Rapetti) il destino che avrebbe voluto riservare a quel brano se avesse potuto.
Inizia così, con un lavoro parecchio discontinuo, l’avventura di Battisti con la Numero Uno.
L’album sarebbe potuto essere migliore? Sicuramente sì, considerato che il successivo uscirà neanche sette mesi più tardi. E che ancora una volta, la profezia di Dattoli di cui ho parlato in apertura, sarà da rinviare a data da destinarsi.
Nel suo libro del 2010, Michele Neri ha affermato che il testo mai cantato di Umanamente uomo :il sogno (divulgato per la prima volta in un libro del 99), non fu scritto da Mogol ma da un anonimo funzionario della casa discografica incaricato del deposito in siae.