– di Luigi De Stefano –
Uno dei giochi più popolari tra gli ascoltatori di musica è quello della comparazione. Si prende un artista, di solito del passato, e si prova a pensare a chi sia il suo erede, o ancora meglio: il suo corrispettivo tra quelli di un determinato paese (di solito quello da cui proviene chi si sta cimentando con il paragone).
Segue la proposta, e poi l’inevitabile discussione, perché i criteri che portano alla scelta possono essere innumerevoli: stile musicale, evoluzione artistica, affinità elettive (in tutti i sensi), impatto sul pubblico, influenza sulle nuove generazioni, o semplicemente gusto del “giocatore” per la provocazione e il clickbait.
Tuttavia, mutatis mutandis, non sono molti quelli che possono opporsi al fatto che Lucio Battisti abbia rappresentato per l’Italia quello che i Beatles sono stati su scala mondiale: una forza dirompente, in grado di guadagnare prima la stima del pubblico, e poi, a poco a poco, quella della critica. Una macchina da melodia in grado di evolvere il proprio stile nel giro di pochissimi anni, di spiazzare l’ascoltatore tra una traccia e l’altra dello stesso album, e – in definitiva – di lasciare un’eredità ai posteri impossibile da ignorare.
“Battistiano” si usa oggi in Italia con la stessa naturalezza con cui un anglofono parla di “Beatlesque”, e non è un caso che a dare il proprio nome alle cose siano da sempre i grandi esploratori (Colombo o Vespucci), i geniali inventori (Volta o Diesel), chi vince il favore del grande pubblico (prendiamo ad esempio la Kleenex) o semplicemente chi prende un’idea vecchia, ma la rielabora per tirarne fuori qualcosa di nuovo, di unico, di ideale per i propri committenti, come monsieur Guillotin.
Perché chiaro, Lucio Battisti i Beatles li ha studiati letteralmente a memoria («Da Paul McCartney ho imparato a cantare» fece scrivere alla moglie qualche anno più tardi), però quello che i quattro di Liverpool erano per lui l’ha spiegato davvero con le note, cercando nuovi accordi e nuove scale.
C’è però una sostanziale differenza, almeno una, che va tutta a suo favore: Lennon e McCartney dovettero lottare affinché il loro primo singolo non fosse una cover, e divennero autori ricercati solo dopo l’esplosione della beatlemania, quando apporre quel marchio su un 45 giri altrui garantiva, se non un grande successo, perlomeno un sostanziale boost alle vendite.
Battisti invece si guadagna a colpi di composizioni il diritto di mettere la voce nei propri brani, quegli stessi brani che altri artisti riuscivano a portare in classifica al posto suo, forti di un’esposizione maggiore e forse anche di una vocalità meno inusuale di quella dell’artista di Poggio Bustone. Perlomeno in un Paese in cui, nonostante l’esplosione degli urlatori, non si voleva rinunciare a voci rassicuranti ed educate.
Battisti non demorde, e il tempo gli dà ragione. “Balla Linda” (1968) è il suo primo ingresso come interprete nella hit parade, un pezzo che – come a volte accade – nasce come lato B ma oscura completamente l’altra faccia del vinile, quella “Prigioniero del mondo” che rimarrà uno dei pochissimi episodi nei quali Lucio interpreterà un brano musicalmente composto da altri.
Il testo, come tutti gli altri, lo firma Giulio Rapetti, in arte Mogol. Su quanto gli deva Battisti, piuttosto a disagio nella scrittura delle liriche, ci sono pochi dubbi (specialmente se è vero che lo stesso Mogol minacciò di dimettersi dalla Ricordi se non avessero permesso a Lucio di cantare le sue canzoni).
Quanto Mogol debba alla sua controparte musicale invece rimarrà un mistero, un gioco alternativo a quello delle comparazioni, anche se forse (come quella Battisti-Beatles) dal giudizio piuttosto unanime.
Il 1969 si apre con la sua prima partecipazione da interprete a Sanremo, dove assieme a Wilson Pickett presenta “Un’avventura”, tutt’oggi uno dei suoi brani più conosciuti. L’attacco della seconda strofa è sbagliato, il pezzo (almeno secondo Mariano Detto, che rifiuterà di arrangiarla) troppo ispirato nelle dinamiche a “Deborah” dello stesso Pickett, e la stampa non risparmia critiche feroci alla sua interpretazione, tuttavia la macchina si è messa in moto, e il successo del giovane cantautore destinato a crescere in maniera esponenziale.
Il lato B del singolo è l’altrettanto memorabile “Non è Francesca”, ed è chiaro che i tempi sono maturi affinché esca un intero LP a suo nome. L’Italia è storicamente in ritardo sulla scena beat anglofona, e la formula dell’album, specie se costruito attorno a un concetto, quasi sconosciuta, relegata a pochi esempi, perlopiù di artisti che di lì a breve troveranno la propria naturale evoluzione nel rock progressivo (“Senza orario senza bandiera” dei New Trolls) o che diventeranno giganti per la forza della propria poetica (“Tutti morimmo a stento” di Fabrizio De André). Inoltre il materiale a disposizione è già più che sufficiente, e così, all’improvviso, “Lucio Battisti” non è più solo un giovane cantautore reatino trapiantato a Milano, ma anche il titolo di un album che in Italia arriverà subito in vetta alle classifiche.
Perché i pezzi funzionano, su questo non c’è dubbio.
Lo sa bene l’Equipe 84, che due anni prima aveva sbancato con il grande successo di “29 settembre” e quello minore di “Nel cuore, nell’anima”. Battisti riprende i brani, spogliandoli di quella vena un po’ barocca che aveva caratterizzato gli arrangiamenti originali, e scegliendo invece ritmiche semplici e arpeggi scintillanti, al cui centro c’è un’esecuzione vocale che non avrà la fierezza di un Claudio Villa o la potenza di un Modugno, ma è intrisa dell’emozione che può trasmettere solo chi per primo ha svelato dal mistero dell’ispirazione il segreto di quelle melodie.
“Nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto” e “Per una lira” erano state affidate invece ai Ribelli, terminali ultimi di un lungo giro che parte da Mogol e passa per Adriano Celentano. Battisti si diverte a cambiare anche queste, e volendosi allontanare dal tipico sound beat della band del Clan, sceglie contrappunti di archi quasi rococò o il nostalgico suono dell’Hammond.
Chiudono il quadro “Io vivrò (senza te)”, già interpretata dai Rokes, e tre inediti.
“La mia canzone per Maria” era il lato A di un singolo non molto fortunato, dalle iconiche chitarre e atmosfere latineggianti. “Uno in più” un esperimento di fusione tra un certo folk rock di protesta (il brano, come diversi altri, risale al 1966) e la necessità di avere un ritornello memorabile ma melodico.
A chiudere il disco i riff elettrici de “Il vento”, parentesi quadre di un crescendo vocale fatto apposta per esaltarli, pur senza rinunciare a una soluzione che riporta il rabbioso ritornello nei territori di un’epistolare calma apparente.
In un Paese che sta imparando ad amare la formula del long playing, Lucio Battisti è il primo grande passo di una carriera trionfale. E per i suoi fan c’è una buona notizia: nei tre anni che sono intercorsi dalla composizione di alcuni dei brani e la loro pubblicazione, Battisti non è rimasto certo con le mani in mano, e proprio dietro l’angolo sta mettendo assieme qualcosa di ancora più spettacolare.