“Il nostro caro angelo” è il disco di passaggio di Lucio Battisti, dal mondo delle “canzonette” a quello della ricerca e della sperimentazione
– di Luigi De Stefano –
Il nuovo album di Lucio Battisti esce nel settembre del 1973, e deve “accontentarsi” del secondo posto tra i dischi più venduti nel Paese in quell’anno, surclassato da Il Mio Canto Libero. Sempre di Lucio Battisti (se questo articolo è l’unica cosa che leggerete su di lui in vita).
Sei mesi prima, la sua compagna Grazia Letizia Veronese gli ha dato un figlio, Luca, e per il pubblico non c’è dubbio che si tratti del “caro angelo” che dà il nome al lavoro, tesi però smentita completamente da Mogol, che – in maniera volutamente sibillina – attacca le ipocrisie della Chiesa Cattolica, colpevole di tarpare le ali degli uomini liberi con il pregiudizio e la condanna.
Era naturale pensare che l’artista volesse dedicare una canzone al figlio, ma Battisti non è un paroliere (termine detestato da Mogol, che preferisce “autore dei testi”), e quindi si limita a interpretare quello che scrive il suo socio. Tuttavia è lecito pensare che non avrebbe cantato ciecamente qualcosa che non lo rappresentasse almeno in parte, proprio come a Rapetti era capitato di rifiutare di mettere le parole su brani che non gli piacevano.
BATTISTI FASCISTA?
Ci troviamo negli anni ’70, una fase in cui buona parte della politica era portata avanti con la maturità che contraddistingueva i miei coetanei quando avevo 9/10 anni: sei comunista o fascista?
In un’Italia che (proprio come Abraham Simpson) non sa stare cinque secondi senza umiliarsi, un’Italia che minacciava di morte Francesco De Gregori perché non era abbastanza compagno, e avrebbe dovuto fare l’operaio e suonare gratis, è naturale che Lucio Battisti fosse marchiato a fuoco come “fascista”.
Nessuno lo aveva mai sentito parlare di politica, ma niente, lui era fascista e basta. Per alcuni neanche semplice simpatizzante, ma diretto finanziatore di specifiche frange di estrema destra, tutto questo in anni in cui la gente saltava per aria.
E la sua unica colpa era quella di parlare d’amore, di essere “disimpegnato, dis-tutto”, come lui stesso si definì sotto il fuoco delle critiche.
Battisti d’altronde, specialmente dopo la nascita del figlio, si era dileguato dalle scene, e quindi è ancora oggi alla mercé di chiunque tenti di appropriarsene.
MOGOL È FASCISTA?
L’essere umano è spesso limitato dai suoi bias di conferma, la naturale facilità di trovare nella realtà le ipotetiche prove di una sua convinzione preesistente.
Così, come i complottisti d’oltremanica vedevano ovunque le prove della presunta morte di Paul McCartney, quelli italiani trovavano nelle opere di Battisti le conferme di una sua predilezione verso “Sua Eccellenza” di un ventennio fortunatamente passato.
Le braccia nella copertina de “Il Mio Canto Libero”? Naturalmente sono saluti romani, quel “bosco di braccia tese” che nomina in questo nuovo LP. Il tutto passando per il “mare nero” o “avvicinatevi alla Patria”. L’avesse almeno detto per davvero…
Ma Battisti non è un paroliere: i testi li scrive Mogol. Allora Mogol è fascista?
IL RAPPORTO MOGOL/BATTISTI
Il discorso sulle presunte idee politiche del cantautore è talmente sciocco e ininfluente da non meritare di essere ripreso ulteriormente, ma è sensato chiedersi quale peso avesse Lucio nell’indirizzare la poetica del suo compagno di credits.
Il suo ostinato silenzio, durato fino alla morte, ci lascia purtroppo con una sola fonte ufficiale, ed è quella che si è costretti ad adottare, pur cum grano salis.
Di Mogol sappiamo quello che ci ha detto.
Ad esempio che non scrivesse mai le parole prima della musica, perché questa in qualche modo già conteneva in sé i versi.
Sappiamo da un’intervista di Morgan, che una volta provò a collaborare con lui, che pretendeva una scansione metrica del cantato, in pratica un demo in cui le parole fossero sostituite da qualcosa di neutro, come i numeri.
Sappiamo inoltre che niente di quello che ha scritto è astratto, pura invenzione, perché Mogol riteneva di poter scrivere solo di quello che conosceva in prima persona. E così, come il carretto dei Giardini di Marzo era quello di un gelataio della sua infanzia, è finalmente facile capire come “Il Nostro Caro Angelo” non sia che un nuovo attacco al perbenismo confessionale italiano, quello che aveva già voluto colpire in “Gente per Bene e Gente per Male”.
LE TRE VERITÀ
Andrea Barbacane, figlio della sorella di Lucio, ha portato una serie di contenuti su YouTube nei quali parla con ammirazione e un po’ di risentimento dello zio, ovviamente (come tutti) senza contraddittorio. Una delle cose più interessanti è il fatto che mostri alcune tele dipinte nei primi anni ‘70 da “Zio Lucio”, spiegando che i titoli anticipassero future canzoni, anche piuttosto distanti nel tempo, come “Una Giornata Uggiosa” o perfino “L’Apparenza”.
Ma Mogol ha dichiarato che uggioso era un aggettivo desueto che si usava molto a casa sua, in qualche modo smentendo l’idea di aver scritto un testo “su commissione”.
La verità è da qualche parte nel mezzo, perduta per sempre nel limbo del non detto.
IL NOSTRO CARO ANGELO
Il Nostro Caro Angelo è sostanzialmente un album di transizione.
Lo confermerà lo stesso Lucio in un’intervista-manifesto che accompagnerà l’uscita dell’album successivo: si tratta del primo tentativo di demitizzare il Battisti degli esordi, e in qualche modo educare il pubblico all’ascolto di un qualcosa che non sia necessariamente “gradevole”, di immediata comprensibilità e fruizione: stimolarlo a tornare su quello che non si è capito in prima battuta per renderlo parte attiva della performance artistica.
L’esempio più evidente viene dall’ormai usuale singolo schiacciasassi che accompagna l’uscita del long playing.
Sul lato B c’è la title track, un atipico brano cantautorale dal testo oscuro e dall’andamento ricorsivo, privo di ritornello, che come spesso in passato parte sostanzialmente acustico, per poi via via arricchirsi di contributi strumentali. Le chitarre elettriche dialogano con le tastiere, il basso spinge sulla melodia e contribuisce con i synth a iniettare piccole idee melodiche.
Il lato A è un super classico. Ma La Collina dei Ciliegi non è l’ennesima canzone pop dall’irresistibile ritornello, piuttosto il tentativo (molto felicemente riuscito) di restare accessibile e cantabile pur spingendosi pericolosamente ai confini della forma-canzone, giocando con il tempo e la struttura. È un trionfo di hook azzeccati, che conquista al primo ascolto, e tuttavia invita a ripeterlo ancora e ancora, per appropriarsi di tutte le idee melodiche e armoniche messe assieme da Battisti e dai suoi pochi collaboratori.
Per questo album Battisti infatti rinuncia alla consuetudine di servirsi di un nutrito parco di musicisti: tiene per sé tutte le parti di chitarra e lavora praticamente solo con Bob Callero al basso, Gianni Dall’Aglio alla batteria e Gian Piero Reverberi per la sovraincisione di alcune tastiere. Il risultato è un lavoro molto compatto, ma limitato dalla mancanza di alcuni dei collaboratori di rango che, nei suoi primi lavori, avevano suggerito molte e creato soluzioni memorabili.
La forma dell’album consente a Battisti di provare idee che non troverebbero mai spazio su un singolo, come La Canzone Della Terra, un pezzo quasi interamente basato su percussioni, che segue la vita di un rozzo patriarca di campagna. L’intento sperimentale è evidente, l’arrangiamento ingegnoso, ma il risultato francamente dimenticabile.
Mogol ha spesso raccontato nei suoi pezzi di figure semplici, “di provincia”, e in questo album si concede il bis con Le Allettanti Promesse, che è sostanzialmente l’esatto contrario di Gente per Bene e Gente per Male: un dialogo tra un coro femminile di cittadini e uno schivo contadino, solo che stavolta è lui a rigettare l’invito a unirsi a loro, che vorrebbe dire abbandonare la solitudine bucolica e il suo ostinato isolarsi.
Si tratta sostanzialmente un’altra critica al perbenismo urbano, e una piccola rivincita del “buon selvaggio”, che non insegue più integrazione e divertimento, da pagare al prezzo della maldicenza. Le Allettanti Promesse non ha gli scivoloni della sua controparte passata, ma neanche le meravigliose trovate, e pur accendendosi sul finale, resta un brano piacevole, ma minore.
Forse un po’ a corto di materiale, Battisti ripesca Prendi fra le Mani la Testa, un pezzo scritto nel 1967 per Riki Maiocchi, trasformandolo da walzer beat stile musicarello a cupo rock blues, caratterizzato da chitarre elettriche e un basso dinamico.
Io gli Ho Detto No è un altro brano atipico, e proprio per questo perfettamente integrato nel mood dell’album: una sorta di ballad che diventa midtempo, rifuggendo strutture solide pur senza rinunciare alla memorabilità degli hook, affidando a una sorta di ticchettio lo scandire ritmico del pezzo, agli strumenti il compito di intrattenere l’ascoltatore, e a quest’ultimo l’onere di districarsi tra il testo, e capire a cosa il protagonista abbia detto no. Le interpretazioni non mancano.
IL GRIDO DISPERATO DI LUCIO
Più interessanti gli altri due pezzi.
Ma è un Canto Brasileiro è una feroce critica al consumismo che distorce la realtà, specialmente quella di chi fa a pieno titolo parte della filiera. In questo caso è la compagna del cantante, attrice molto richiesta per la realizzazione di spot pubblicitari, costretta a mettere cento maschere diverse, a lodare prodotti scadenti, inutili o addirittura nocivi, e sostanzialmente a rinunciare alla vita vera per qualche soldo in più.
Come negli altri brani, Battisti gioca molto con il tempo, la struttura e gli strumenti, divertendosi a inserire – a mo’ di ritornello – un estratto “tropicale” che ha lo stesso effetto interruttivo e straniante di uno spot pubblicitario.
Ma torniamo al dubbio originale. Era davvero questo l’intento? È un’idea messa assieme dal duo, una suggestione di Battisti o una trovata vincente di Mogol?
Di certo quest’ultimo si è espresso sul brano che chiude il disco, ossia Questo Inferno Rosa, sostenendo che si trattasse della storia vera dell’imborghesimento di un amore, una coppia che lui stesso aveva contribuito a formare, per poi vedere lei trasformarsi da spirito libero a carceriera del suo compagno. Il già citato Andrea Barbacane non ha dubbi, e sostiene che parli proprio di Lucio Battisti, in qualche modo costretto dalla compagna a isolarsi, separato dal resto del mondo dalle “mura di un castello” che lei ha alzato, per meglio gettare olio bollente su chi provava ad avvicinarsi.
Chissà. Difficile pensare che Battisti avrebbe cantato con serenità un grido di aiuto tanto disperato se fosse stato consapevole che si trattasse del suo.
Di certo è convincente, e il pezzo, forse il migliore dell’album dopo “La Collina dei Ciliegi”, raggiunge vette notevoli di tensione emotiva, che collassano nelle chitarre elettriche del finale.
Il Nostro Caro Angelo fotografa un Lucio Battisti alla ricerca di nuove strade, un autore che sente la necessità (e la responsabilità) di guidare il pop radiofonico italiano verso lidi meno battuti. Che non rinuncia ai colori della melodia, ma invece di incasellarli come Mondrian, li sparge in libertà come Pollock. E non finisce qui.