– di Luigi De Stefano –
A volte, quando un fan ti parla di un disco del suo artista preferito, ti dice che “è così bello che sembra un best of”.
Ora: questo può voler dire tutto e nulla, perché mi vengono in mente diverse band affermate che non sono in grado di mettere assieme un greatest hits migliore di (per fare un esempio) Odessey and Oracle degli Zombies. Ma il punto è che questa affermazione, nella maggior parte dei casi, è esagerata.
“Emozioni” però fa parte degli altri, di quella sparuta minoranza. Emozioni è così bello che sembra un best of, e ci sono almeno due ottimi motivi.
Il primo è che – di fatto – qualcuno lo considera una compilation, trattandosi di una raccolta di brani già pubblicati su singolo. La discografia battistiana è una questione complessa, e questa monografia si baserà sulle raccolte antologiche uscite in CD nei primi anni 2000. “Emozioni” rende superfluo “Volume 2”, ed è canonicamente considerato il “vero” secondo album della carriera del cantautore di Poggio Bustone.
Il secondo è che questa raccolta fotografa un momento irripetibile della vita di Lucio Battisti, e quindi della storia della musica italiana: due anni nei quali praticamente qualsiasi cosa esca dalle corde della sua chitarra diventa un classico istantaneo, una pietra miliare della memoria collettiva.
Tutt’oggi, quando una rete televisiva produce uno speciale su Battisti, di solito il canovaccio è sempre lo stesso: ipotizzando due ore nette di trasmissione, avremo un’ora e quaranta sul periodo che va dagli esordi al 1972, quindici minuti su tutto il resto della produzione con Mogol, e – se va bene – cinque minuti per riassumere i successivi 18 anni.
I motivi sono di convenienza ecumenica (Rapetti in studio non manca mai), ma anche di semplice logica commerciale: give the people what they want. E quello che la gente vuole è il Battisti da schitarrare attorno a un fuoco, quello delle luccicanti gemme pop, dello storico duetto con Mina e della scadente imitazione di Alighiero Noschese. Un artista che accettava ancora le logiche dello showbiz e quelle del mercato: non negarsi ai mass media, e produrre brani che il pubblico possa digerire con facilità.
Scrivere un pezzo di successo non è un’impresa da poco, e spesso questo è inversamente proporzionale alla qualità del brano. Battisti tuttavia sbanca per due anni di seguito (1969 e 1970) il Festivalbar, quando la kermesse di Salvetti premiava ancora la canzone più richiesta nei jukeboxe dello stivale, quando ossia la colonna sonora dell’estate non calava dall’alto, ma veniva decretata a furor di popolo e a suon di gettoni.
Acqua Azzurra, Acqua Chiara (1969) ha forse il ritornello più memorabile della musica italiana dopo Nel Blu Dipinto di Blu di Modugno: una vera e propria esplosione di freschezza che si prende la scena sin dall’attacco strumentale, e incornicia con gli archi le dolci, più calme strofe melodiche. Un inciso talmente forte da consentire a Battisti di fare quello che vuole, incluso piegare la metrica a piacimento e lasciarsi andare in un finale in cui non contano più neanche le parole, ma solo il suono e il trasporto della musica. E pensare che nasceva come lato B di Dieci Ragazze, altro brano consegnato all’immortalità dall’immediata cantabilità e dal vellicante immaginario di Mogol, che tratteggia una sorta di maschio alfa, ma furbescamente tarpato nel suo desiderio più grande: l’unica donna che non può avere.
Mettere d’accordo tutti sul tema sarà sempre impossibile, ma Fiori Rosa, Fiori di Pesco (1970) è probabilmente il capolavoro assoluto del primo Battisti, e mi limito al “primo” solo perché la sua evoluzione artistica rende arduo mettere a confronto opere tanto diverse tra loro.
In poco più di tre minuti, Lucio mette assieme in maniera perfettamente naturale più hook di quanti non se ne trovino in intere carriere artistiche:. Apre con un cappello quasi pastorale, ma subito attacca con una strofa sorretta da un’ansiosa chitarra acustica, mentre gli strumenti entrano poco a poco, in un susseguirsi di bridge che culminano nel disperato finale, così complicato da attaccare al momento giusto la seconda volta, e così dolcemente straziante da far pensare che il pubblico di Speciale per Voi, quello che rimproverava a Battisti di non saper cantare, venga da una sorta di inspiegabile universo parallelo.
Il lato B è Il Tempo di Morire, un pezzo che se fosse uscito negli anni ‘90 avrebbe avuto “Motocicletta” tra parentesi dopo il titolo, tanto iconico è il suo attacco. Un rhythm and blues dalle vaghe allusioni sessuali (“morire” per Mogol – come già in “Dieci Ragazze” sarebbe una ricorrente metafora dell’orgasmo) che ogni artista rock italiano che si rispetti ha prima o poi interpretato dal vivo.
Lucio Battisti amava molto Bob Dylan (dal quale, dirà, aveva “imparato a dire quello che mi pare”), ma amava altrettanto Donovan, un artista che – almeno nella primissima parte della sua carriera – la stampa aveva eletto a “risposta britannica” allo stesso Dylan.
In un intervento a Radio Montecarlo, Battisti raccontò di non aver mai dato peso a questo paragone, e di avere anzi intuito subito l’unicità dello scozzese, che lo aveva letteralmente shockato per il suo modo etereo e sognante di raccontare la realtà, tanto da spingerlo a studiarlo profondamente.
Quando Donovan, durante i giorni di Rishikesh, insegna a John Lennon a suonare la chitarra acustica con la tecnica claw-hammer, Lucio Battisti è lontano migliaia di chilometri, ma ha spontaneamente adottato un consiglio dato dallo stesso menestrello agli aspiranti cantautori: provare a suonare le canzoni amate, e incorporare gli errori, costruendo su di essi un canone personale. E così Era, originariamente il lato B del suo secondo singolo, è la sua Catch the Wind, il suo personalissimo omaggio a uno degli artisti che più lo ha influenzato.
Assieme a quella, ha finalmente l’occasione di brillare anche un altro pezzo che era passato completamente inosservato. Si tratta di Dolce di Giorno, il lato A del primissimo singolo di Lucio Battisti, datato luglio 1966. La pubblicazione su Emozioni la consegna finalmente al grande pubblico, eclissando nell’immaginario collettivo la versione dei Dik Dik (con la quale condivide la base), che la scelsero all’epoca come lato B di Sognando la California.
Se pur non fosse abbastanza, sul disco (oltre alle già pubblicate Io Vivrò (Senza Te) e Non è Francesca) c’è ancora spazio per due singoli giganteschi.
Il primo ha sul lato B Anna, un rock costruito sulla tensione generata con la musica dall’insistente alternanza di due accordi, e con le parole dalla descrizione di un uomo solo apparentemente appagato, ma che cova un desiderio sempre più difficile da trattenere: un grido di dolore scatenato sul finale, sorretto da un esplosivo break di batteria.
Sul lato A invece la title track, quella Emozioni in cui Battisti spende un incredibile riff di chitarra per aprire un brano leggiadro e potente allo stesso tempo, dove gli archi carezzano alcune delle più memorabili intuizioni liriche della carriera come paroliere di Mogol. Forse il brano meno immediato dell’intera raccolta, e allo stesso tempo il più misterioso, sfuggente, affascinante.
Il secondo invece “è talmente bello che sembra un doppio lato A”, e di fatto è così.
7 e 40 è un trascinante pop-rock introdotto da un martellante riff di basso e vibrafono, e carezzato dai contrappunti di organo, con quel crescendo e quel ritornello così puramente battistiano, eppure sempre fresco e sorprendente. Se questo pezzo finisce sul lato B, è solo perché Lucio ha appena composto Mi Ritorni in Mente, un altra colonna portante dell’intera storia della discografia italiana.
Come Fiori Rosa, Fiori di Pesco, è un trionfo di intuizioni melodiche. L’attacco strumentale lascia spazio al tema principale, dove il “come ti vorrei, come ti vorrei” potrebbe già essere il ritornello di un sicuro successo, e invece non è che il preludio alla successiva deflagrazione.
Il ritmo si fa concitato, la narrazione tensiva, e poi drammatica, precipitando nella malinconia, adesso pienamente orchestrale, della seconda strofa. Una vera e propria romanza pucciniana, come la definì Gabriele Lorenzi, allora tastierista della Formula 3.
Compilation o meno, Emozioni non è solo una delle cose migliori che ancora oggi si possano mettere sul piatto di un giradischi, ma la vera e propria fotografia di un Paese che, pur sentendo all’orizzonte il rombo dei cannoni, si avvinghia dolcemente, con nostalgia, agli ultimi scampoli degli scintillanti anni ’60, il tramonto che si resta in silenzio a osservare finché il mare non inghiotte l’ultimo spicchio vermiglio.