– di Luigi De Stefano –
Nell’apprestarsi a recensire gli album dei Kinks, George Starostin, apprezzato critico musicale, parla dello strano fenomeno per il quale la maggior parte delle persone tende a far parte di una delle seguenti categorie:
- quelli che non li hanno neanche mai sentiti nominare;
- quelli che li considerano membri imprescindibili della top ten dei più grandi musicisti del ventesimo secolo, se non addirittura la più grande band di sempre.
Un discorso molto simile può essere fatto per Anima latina, l’ottavo LP di Lucio Battisti: praticamente sconosciuto ai più (inclusi molti estimatori casual del cantautore), e stella polare della discografia italiana per quasi tutti gli altri.
In entrambi i casi, faccio mie le parole con le quali Starostin termina il suo ragionamento: «Nel mezzo non rimane quasi nessuno, e di certo non intendo farlo io, unendomi senza indugi al gruppo b».
UN SUCCESSO NON SCONTATO
Caso curioso quello di questo lavoro: anche se non fece i numeri gargantueschi dei lavori immediatamente precedenti, risultò comunque l’ottavo album più venduto in Italia nel 1975, con ben tredici settimane consecutive passate al primo posto in classifica.
Un notevole successo commerciale, ma, ciò nonostante, nessuna delle nove tracce (più due riprese) riuscì a imprimersi nell’immaginario collettivo. Nessuna canzone è diventata un classico della musica nostrana.
Entrambe le cose, in realtà, hanno una spiegazione molto semplice. Per quanto riguarda il successo, qualsiasi cosa Lucio Battisti avesse scelto di pubblicare dopo Il mio canto libero e Il nostro caro angelo avrebbe venduto tonnellate di copie sulla sola fiducia. Per quanto riguarda il (relativo) oblio, le cause sono da ricercare nella natura del disco: «un’operazione culturale, quasi un esperimento, e tale dovrà restare».
Queste parole vengono da una lunga intervista concessa da Battisti a Renato Marengo per la rivista Ciao 2001, alla quale avevo già fatto riferimento in passato. Attingerò a piene mani da quel materiale perché si tratta di un contributo fondamentale per inquadrare e contestualizzare propriamente l’album, e anche perché anche la stessa intervista, in fin dei conti, rimase un esperimento: l’unico caso in cui Lucio Battisti spese così tanto tempo a parlare di un suo lavoro discografico.
LA CRITICA AVVERSA
Come diversi altri album, oggi considerati pietre miliari della musica, anche Anima latina ricevette un’accoglienza critica piuttosto fredda, salvo poi essere completamente riabilitato una volta calmati i bollenti spiriti. Se all’epoca si rimproverava a Lucio di aver voluto abbandonare una formula collaudata, o (grande classico dei tempi) che sull’album “non ci fosse musica”, oggi è quasi una gara a chi ne parla meglio, complice anche l’essere stato preso a ispirazione da numerosi musicisti contemporanei, da Verdena a Iosonouncane, passando per Dente, i Coma_Cose, Colapesce, Calcutta e molti altri.
Di fatto, spesso parlare di Anima latina è quasi controproducente.
Mi spiego: gli appassionati del Battisti più pop tentano un ascolto e fanno spallucce, mentre tutti gli altri iniziano ad averne fin sopra i capelli.
Ammonire chi considera Battisti un canzonettaro, segnalandogli l’esistenza di Anima latina, ormai è diventato quasi un meme. Basterebbe in realtà lasciarsi alle spalle quell’innato senso di colpa che falcidia (senza alcun senso) tanti appassionati del cantautore di Poggio Bustone, e riconoscere che c’è più genio compositivo in un pugno di hit del primo Lucio Battisti che in intere carriere di “arditi sperimentatori del pentagramma”.
UN CAPOLAVORO
Conclusa questa premessa, e prima di iniziare a parlare di cosa contiene, devo ribadire il mio assunto iniziale: Anima latina è un capolavoro, sicuramente tra i migliori dieci album della musica italiana. Forse proprio il migliore, chissà.
«Il pubblico è andato avanti, lo dimostrano del resto le classifiche. […] Oggi il rapporto tra artista e pubblico è mutato, oggi occorre coinvolgere il pubblico, farlo partecipare, provocarlo, stimolarlo, farlo sentire, insieme all’artista, attore ed esecutore di ciò che una volta doveva solo ascoltare, subire.»
A leggerlo oggi sembra impossibile, ma è esistito un tempo in cui in Italia, se si voleva essere à la page (tanto per usare un’espressione vetusta come quegli anni), bisognava sperimentare con la forma canzone, trasfigurarla e farla infine esplodere. Abbracciare poliritmie e influenze classiche. Indulgere in lunghe sezioni strumentali ed esplorare mondi epici, colti, surreali.
In poche parole: “salire sulla Carrozza di Hans”: abbracciare quel rock progressivo che aveva trovato proprio in Italia una delle terre più fertili dove crescere e prosperare. Non è un caso se proprio nel 1974, quando viene pubblicato Anima latina, persino I Nuovi Angeli (quelli di Donna Felicità o Singapore) proponevano una suite di oltre undici minuti nel loro eccellente album Stasera clowns.
IL SUD AMERICA
«La mia lunga permanenza in Brasile, in Sudamerica in genere, mi ha fatto prendere coscienza di un’altra dimensione della musica: musica come vita, come possibilità di stare insieme, di ballare insieme, di cantare insieme, di protestare insieme.»
Si dice spesso che siamo nani sulle spalle dei giganti, ma non è vero: alcuni di noi sono giganti sulle spalle di altri giganti. Anche se la lotteria genetica non ci permette di arrivare agli stessi risultati, abbiamo tutti bisogno di un modello a cui ispirarci, qualcosa da cui partire per poter provare – se non a superarlo – almeno ad emulare.
La Premiata Forneria Marconi aveva un indubbio, solidissimo legame con la musica d’oltremanica. Gli Osanna, per fare un altro esempio, attingevano a piene mani dalla cultura (musicale e non) partenopea. Per Lucio Battisti, sarà un lungo viaggio con Mogol tra Argentina e Brasile la scintilla per cominciare a indirizzare il suo nuovo progetto discografico.
«In pratica, proprio perché mi sono sempre considerato avanti a tutto il resto, nella mia continua ricerca evolutiva era inevitabile che giungessi a conclusioni di rottura e al tempo stesso a premesse per un nuovo tipo di aperture.»
Non tragga in inganno quello che ho scritto: Anima latina non è un disco di musica brasiliana né una via italiana al tropicalismo.
I due coautori tornano dal Nuovo Mondo con delle suggestioni ben precise: Battisti è affascinato soprattutto dal ritmo, che diventa motore stesso della creazione, Mogol da un’umanità non ancora contaminata dalle sovrastrutture culturali, in grado di vivere ogni esperienza, compresa la sessualità, con una sorta di purezza primigenia.
BATTISTI E IL PROGRESSIVE ROCK
«Questo ho fatto col mio ultimo long playing: ho messo la mia voce in mezzo alla mia musica ed ho inteso stimolare gli altri a capire le parole, ad afferrarne il senso o la sola sonorità. […] Si ascolta un brano non perché questo sia piacevole ma perché ascoltare significa qualcosa: e ascoltare con attenzione, magari rimettendo il disco daccapo perché non si è capito, magari facendo irritare chi non è riuscito ad individuare al primo ascolto una parola, è un’operazione stimolante, coinvolgente.»
Per Battisti il cosiddetto prog rock è un mezzo, e non un fine. Una sorta di armatura che gli consente di esplorare con maggiore tranquillità fino a dove può spingersi con la composizione. Sceglie con attenzione i collaboratori che vuole con sé per le registrazioni, e li porta al Mulino, un casolare in Brianza che era stato adattato a studio di registrazione.
Anche se Anima latina viene concepito nella “nuova America”, tutta la gestazione, dall’arrangiamento fino alla foto di copertina, avviene in questa sorta di comune bucolica, in un clima in cui ogni persona coinvolta viene invitata a proporre le sue idee e – se necessario – a improvvisare. Sono passati solo due anni dalla scenata rabbiosa riservata a Massimo Luca perché aveva provato a inserire una settima maggiore (che peraltro alla fine verrà tenuta) ne Il mio canto libero.
Battisti vuole che la musica suonata diventi protagonista, e non si limiti a incorniciare le sue parti cantate, che si fanno invece più rarefatte e cariche di effetti (cosa non molto amata da Mogol, che riteneva di aver scritto alcuni tra i suoi più bei testi, e pensava che fossero poco intellegibili).
ANIMA, ALZATI, APRITI
«Perché Anima latina? Perché lì, tra quella gente semplice, tra quei suoni genuini e al tempo stesso pieni di felicità ma anche di denuncia, di realtà, ho ritrovato il mio spirito latino. Con l’anglicismo e l’americanismo che ci hanno coinvolti in questi anni andavamo perdendo lo spirito creativo, la vitalità che ci caratterizzano da sempre e che non sono morti, ma semplicemente addormentati dalla sudditanza all’America dei frigoriferi e dei consumi.»
La prima traccia è Abbracciala abbracciali abbracciati. Oltre sette minuti di durata, e le parole non arrivano prima di un minuto abbondante di intro: solo synth, batterie rarefatte e qualche borbottio. È di fatto un dialogo con una donna, come spesso accade nelle sue canzoni, ma stavolta c’è di più: il dubbio che «la nostra dolcissima fatica» sia il tentativo di mettere su pentagramma la musica che Battisti sente in testa, una sfida tutt’altro che facile – chiedere a Brian Wilson per conferma.
E forse non è un caso che quando il brano si apre, in qualche modo lo dichiari: «Anima [proprio lei!], alzati, apriti! Abbracciala, abbracciali, abbracciati». Battisti invita tutto il suo pubblico a seguirlo fino al centro del proprio universo.
ANONIMA LA CASA
«Diciamo che lo scopo principale è proprio quello di demistificare alcune situazioni false ed anacronistiche, di fare musica per gli altri, permettendo ad ognuno di ascoltare secondo la propria sensibilità, predisposizione o volontà. Cosa che cantando come si è fatto sino ad oggi non è certo possibile fare. Musicalmente ci sono molte arie, respiri ed aperture neolatine.»
Parlare dei singoli brani è complesso, o perlomeno è complesso farlo senza scrivere due pagine per ognuno di essi. Pezzi come Anonimo o Gli uomini celesti (per restare sul lato A) confondono l’ascoltatore di Lucio – o perlomeno l’ascoltatore della prima ora – con continui cambi di ritmo, ampie sezioni strumentali, strutture difficili da memorizzare e il ricorrere, apparentemente casuale, di alcuni temi musicali che creano un continuum tra le canzoni. Il più emblematico è forse quello de I giardini di marzo, qui in versione di vezzosa marcetta, con il quale si conclude Anonimo. Forse un semplice divertissement, forse una vera e propria scomunica. D’altronde «stasera ho ancora voglia di giocare».
Non si inganni però chi pensa che Battisti volesse creare qualcosa per il suo unico godimento: le sezioni strumentali non sono mai sgangherate jam improvvisate solo per alimentare i solchi del vinile o esaltare gli esecutori, ma un vero tesoro di idee musicali, che Lucio – se avesse voluto – avrebbe tranquillamente potuto trasporre in una di quelle melodie vocali che gli avevano concesso l’eterno permesso di fare quello che più gli piaceva.
VOGLIO TE
«Siamo ancora legati alla strofa, alla rima…»
Come ho già scritto, nessun brano è entrato nell’immaginario popolare, né alcun singolo è stato tratto dal lavoro complessivo. Il candidato più papabile però sarebbe sicuramente stato Due mondi, l’unica canzone ad avere una sorta di ritornello, oltre che l’unica – stavolta nell’intera carriera del cantautore – a cui a qualcuno viene permesso di duettare su disco con Lucio Battisti.
Mara Cubeddu nel 1974 ha appena diciott’anni, da due collabora con i Flora Fauna Cemento, ed è in procinto di avere un enorme successo con Soleado e i Daniel Sentacruz Ensemble. Le bastano due o tre take per incidere la sua parte vocale, e non è un caso: Battisti non l’ha scelta per la sua precisione o potenza vocale, ma perché il suo cantato esprime esattamente quel senso di ingenuo, disperato bisogno che nessuna diva della canzone italiana avrebbe potuto restituire con altrettanta sincerità. Con il suo incedere incalzante e i suoi ottoni squillanti, Due mondi è il momento più puramente “memorabile” dell’intero album.
URCA, GUARDA COSA C’È
«La musica brasiliana è una delle più vive oggi tra le musiche popolari del mondo; non ha perso la sua funzione che è soprattutto quella di consentire al popolo di esprimersi, di comunicare, di stare insieme.»
Esistono tanti modi per stare assieme, specialmente da quando internet ci ha permesso di allevare una generazione di nativi digitali che ormai sta per raggiungere o ha già compiuto i trent’anni.
Il più intimo, ma anche il più innato nella psiche umana, è da sempre il sesso. L’istinto innato e primordiale di riprodursi è quello che ha permesso agli ominidi preistorici di attraversare il buio delle ere prima di potersi ritrovare la notte accanto un fuoco a parlare (e poi, più di un milione di anni più tardi, a strimpellare La canzone del sole a ogni falò).
Se oggi l’essere umano domina il pianeta è grazie alla sua intelligenza e alla sua inestinguibile curiosità, e così, anche dove non è ancora arrivata la pornocrazia occidentale, ci si ritrova inevitabilmente «a misurarsi, a masturbarsi un po’», come in Anonimo, o a procedere per tentativi ed approssimazioni nell’intento di sciogliere il mistero del diventare adulti.
E quando non ci si riesce (Il salame), poco importa: la terra è generosa, e può regalare gioie che sembrano semplici solo a chi ha già tutto, o meglio, pensa di averlo. La coda strumentale della canzone è una vera e propria riconciliazione con la vita.
LA NUOVA AMERICA
«Ciò che ho fatto in questo ultimo disco è la risultante di anni di ragionamento, di esperienze accumulate, tesaurizzate, ma accantonate; non per questo inutili, anzi è proprio sulla base delle esperienze passate che è maturato il futuro della mia musica.»
«Siamo vivi e dobbiamo restarlo» è il grido catartico che giunge verso la conclusione di Macchina del tempo, il brano più complesso dell’intero lavoro. È un urlo contro tutto ciò che rende la vita mera sopravvivenza: dalla catena di montaggio dell’industria fordista a quella dell’intrattenimento, che oggi ancora più di ieri richiede uscite frequenti, suoni digeribili, sequenze di accordi passate alla prova dal tempo e thumbnail occupate per metà dalla faccia buffa dello youtuber di turno.
Il trittico di canzoni che chiude l’album non potrebbe essere più eterogeneo.
La nuova America è fondamentalmente basata su un unico, esplosivo hook, che si dissolve naturalmente accompagnando con la musica e il testo («Io voglio vivere adesso, subito») proprio in Macchina del tempo, una centrifuga di idee musicali in cui la somma è superiore delle (pur ottime) parti, incluso il testo più “panelliano” del sodalizio con Battisti di Mogol.
Infine, la chiosa di Separazione naturale, così anticlimatica da esaltare ancora di più quanto sentito prima. Un minuto e mezzo appena, fatti di un cupo tappeto sonoro sul quale Battisti sovrappone, oltre a poche frasi di congedo, un incomprensibile borbottio, a metà tra lo scat e una sorta di ritmica tribale.
L’ALTRA AMERICA
«Con la musica brasiliana, argentina, sudamericana in genere ho sottolineato questi stati d’animo, ma in pratica ho recuperato il mio stesso spirito creativo mediterraneo, latino come e forse più di quello sudamericano. Questo disco, al di là della sua concezione melodica, dei suoi effetti sonori, è in pratica il punto di passaggio definitivo tra il mio ieri e il mio domani. È già un fatto musicale di cui sono soddisfatto, un fatto nuovo, ma è senza dubbio un punto di rottura.»
Come ho scritto sin da subito, Anima latina è un capolavoro, e personalmente ritengo che ognuno di essi, per quanto coeso e potente possa essere preso nel suo insieme, debba contenere dei capolavori al suo interno.
Non unico, ma forse il più grande di tutti, è quello che prende il nome dall’album. Di solito accadeva l’opposto: si scrive un grande pezzo, e si mette al long playing lo stesso titolo per venderlo con più facilità. Ma Anima latina (la canzone) è in realtà la summa dell’intera operazione intellettuale che lo ha generato: un viaggio musicale che è contemporaneamente quello fisico e quello spirituale di Battisti e Mogol. Il Sudamerica sotto i piedi, e lo sguardo all’orizzonte.
È un viaggio che inizia dalle cascate dell’Iguazú, create da un colpo di coda del malefico serpente M’Boi, tanto vaste e magnificenti da ridurre quelle del Niagara a un rubinetto che perde, come disse stupefatta Eleanor Roosevelt.
L’anima, leggera perché priva del corpo e di ciò che lo rende troppo umano, costeggia l’Atlantico e punta verso la bellezza surreale della baia di Rio de Janeiro, dove il Cristo Redentore abbraccia dall’alto tanto i primi quanto gli ultimi, divisi da spesse mura di protezione, ma uniti dalla speranza che qualcosa di meglio li attenda alla fine della vita.
Poi vira ad ovest. Sorvola leggera Minas Gerais, dove la pelle scura delle genti è il retaggio di un passato di schiavitù o il frutto di mesi di lavoro nelle viscere della terra. Passa per Goiânia, dove la povertà confonde lo scintillio blu della morte con un miracolo, e poi per gli sconfinati altipiani e le pianure alluvionali del Mato Grosso.
Si innalza per godere della magnificenza della foresta amazzonica, rispettosa dei segreti che custodisce al suo interno e addolorata per il cancro che la divora giorno dopo giorno. E poi ancora il Maranhão con le sue piscine naturali, e poi Bahia e il nordest, l’eterna porta sull’estate.
E poi «scende ruzzolando tra i tetti di lamiera, indugiando sulla scritta “Bevi Coca-Cola”».
Oduduwa, Signore della Solitudine, osserva rattristato la meraviglia della sua creazione sporcata dalle miserie umane e da chi se ne approfitta, ma si consola leggendo negli occhi dei bambini la gratitudine per le piccole cose, la semplice gioia di dare un calcio a un pallone davanti a un mare scintillante.
Quando scende la sera, il buio porta con sé una malinconia antica almeno quanto il mondo, la paura ancestrale che alla fine non segua un nuovo inizio, E allora, assieme al fumo delle pignatte dove cuociono riso e fagioli, sale lento verso il cielo un canto corale, che è assieme ringraziamento, conforto e speranza, in una parola: preghiera.
Ma la preghiera non è l’unico modo per esorcizzare l’oscurità.
Proprio come il suo creatore Otabala, che lo ha fatto imperfetto poiché ebbro di vino, l’essere umano ha scoperto l’estasi dionisisaca: come si possa alterare il corpo con la chimica e la mente con la trance. Un sabba sfrenato dove musica, canto, percussioni e danze travolgono i partecipanti, privandoli di ogni controllo.
A Pomba Gira si manifesta e prende possesso del corpo delle donne, mentre gli uomini sfregano il reco-reco e percuotono l’agogô sempre più velocemente, sempre più freneticamente, fino a che – in un ultimo orgasmo collettivo – la festa non raggiunge il culmine.
E solo allora, improvvisamente tornati nei loro corpi, tutti crollano in terra esausti. Nell’aria non resta altro che il silenzio della notte.
Non serve aggiungere nulla alla tua analisi, peccato che questo capolavoro non sia alla portata delle bestiamasse