— di Luigi De Stefano —
Per parlare di “Amore e non amore” occorre seguire una trafila precisa.
Il primo passo è cercare di capire quale posto occupi questo lavoro nella carriera di Lucio Battisti, visto che può essere considerato il suo primo, terzo o quarto album (per fortuna almeno l’opzione “secondo” ci viene risparmiata).
Canonicamente viene considerato il terzo disco “essenziale” (cosa che ci evita l’antipatico onere di aprire il pezzo su “Volume 4” dicendo che in realtà è il quinto).
Battisti però probabilmente lo considerava il suo primo vero album, il primo frutto che la sua creatività musicale aveva plasmato nella forma compiuta di un long playing. L’artista si baloccava infatti con l’idea di un lavoro omogeneo già da tempo, come dimostra un’intervista del settembre del 1970, in cui parlava di avere in cantiere un concept album in cui avrebbe affrontato l’argomento amore attraverso una luce nuova.
Completato di lì a poco, il disco vide la sua uscita posticipata dalla Ricordi, che temendo un flop commerciale (data la natura peculiare del lavoro) preferì metterlo temporaneamente da parte.
Sul mercato venne immesso invece “Emozioni”, quella raccolta di singoli che è un meraviglioso esempio di mostro di Frankenstein al contrario. Un prodotto cucito con ago e filo, ma che dalla radice latina monstrum prende il significato primigenio: un prodigio, un portento, qualcosa di superiore all’umano.
Il secondo è nominare almeno una volta per intero i chilometrici titoli affibbiati da Mogol alle quattro composizioni strumentali, così da poter in futuro abbreviarle senza patemi.
In ordine di apparizione abbiamo quindi:
- “Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi”;
- “7 agosto di pomeriggio. Fra le lamiere roventi di un cimitero di automobili solo io, silenzioso eppure straordinariamente vivo”;
- “Davanti ad un distributore automatico di fiori dell’aeroporto di Bruxelles, anch’io chiuso in una bolla di vetro”;
- “Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore, 35 morti ai confini di Israele e Giordania”.
Tolta di mezzo questa seccatura, possiamo cominciare a riflettere su cosa questo album tenti di proporre al pubblico.
Normalmente un concept album si può definire tale quando porta avanti in maniera coerente un’idea musicale o lirica. “Amore e non amore” fa entrambe le cose, ma non in maniera particolarmente convincente, e sta quindi all’ascoltatore decidere se (lasciando da parte il gradimento complessivo), l’operazione filologica sia riuscita o meno.
Ufficialmente il concept di cui sopra è quello di affrontare due discorsi in contrapposizione, ossia “amore” (i quattro strumentali) e “non amore” (i quattro brani cantati). Tuttavia ci sono diverse cose che non tornano.
Mogol ha dichiarato di non aver voluto scrivere il testo degli strumentali per “paura di rovinare delle composizioni troppo belle”, ma sembra una motivazione davvero poco credibile, sia perché resta praticamente un episodio isolato, sia perché le parti melodiche a disposizione sono ridotte, sia perché – diciamocelo pure – non si tratta di temi musicali poi così incredibili. Sicuramente molto inferiori ad altre cose composte in quello stesso periodo.
È più probabile invece che Battisti volesse cimentarsi con la forma del brano strumentale, teoria suffragata da un’esibizione a Campione d’Italia nel luglio del 1971, che accettò solo in cambio della totale libertà espressiva, e nella quale diresse un’orchestra di venticinque elementi e tre dei suoi fidati session men in un’esecuzione di “7 agosto di pomeriggio”, sollevando anche qualche malumore e qualche frecciatina da chi riteneva che si stesse allargando al di fuori del suo alveo naturale.
Il concept musicale quindi, anche se veramente debole, in qualche modo esiste. Quello lirico si dovrebbe giocare nel confronto tra il contenuto testuale dei brani cantati e il titolo di quelli strumentali, per quanto in questi ultimi è difficile trovare vere e proprie descrizioni di “amore”, visto che si dividono tra la cosiddetta “linea verde” ambientalista/ecologista sostenuta spesso da Mogol e il sottile senso di tragedia e di distacco di “Una poltrona”. C’è di fatto molto più amore nel resto dei brani, visto che – perlomeno – viene (o verrebbe) evocata la sua assenza.
Il mio suggerimento è quello di prendere il disco per quello che è: un esperimento musicale attorno al quale si è cercato di tessere un effimero fil rouge. D’altronde Battisti era ancora entusiasta di “quel tipo intellettuale appariscente”, e ben lieto di lasciargli fare il suo lavoro, un lavoro che aveva indubbiamente impreziosito tutta la sua produzione.
“Seduto sotto un platano” è inizialmente condotta da riff di chitarra, e quando arriva la variazione, una sorta di inciso, si può immaginare come sarebbe stato il pezzo se Battisti avesse scelto di cantare. Tuttavia quest’impressione dura poco, perché gli archi tornano a insistere sui riff, e danno seguito a una sorta di jam, che sfocia in una coda puramente ritmica.
“7 agosto di pomeriggio” comincia mettendo su un canale una chitarra acustica finger picking ora dolce e ora inquieta, e su un altro un’elettrica che sembra improvvisare. Il ritmo si fa poi più concitato con l’aggiunta di un’ulteriore chitarra acustica, che lascia spazio a un intermezzo puramente dodecafonico, e quindi lontano anni luce dal Battisti cantabile da hit parade. Sul finale torna il tema “concitato” e si affiancano gli archi.
“Davanti a un distributore” è un piccolo bozzetto in cui tastiere e archi si fondono in un brano d’atmosfera, ma non particolarmente riuscito, mentre “Una poltrona” è forse il pezzo più sonicamente memorabile dell’ensemble.
Fa la sua comparsa la voce, anche se usata come strumento, mentre l’ipnotico giro di accordi, l’ingresso graduale degli strumenti e il crescendo vanno a costruire una grande catarsi conclusiva. I vocalizzi di Battisti sfumano in un falso finale, dove irrompe invece un sitar solista a lasciare nell’aria, quando la musica si spegne, profumi esotici d’oltremare.
Tra i quattro brani cantati, quelli del “non amore”, c’è “l’intrusione” di “Una”, pezzo composto nel 1969 per fare da lato B a “7 e 40”, prima che arrivasse “Mi ritorni in mente” a retrocedere quest’ultima.
«Tu non sei molto bella / E neanche intelligente / Ma non te ne importa niente / Perché tu non lo sai» vale da sola l’ascolto del brano, che può fregiarsi anche di un ritornello molto orecchiabile. Mogol trasporta una delle sue maschere più classiche, il sempliciotto primitivo ma di buon cuore di rousseauiana memoria, all’interno di una storia che non inizierà mai, nonostante l’oggetto del desiderio sembri tutt’altro che una dea allo sfortunato protagonista.
Gli altri tre pezzi sono stati probabilmente registrati in presa diretta, cosa che non sorprende vista la qualità dei musicisti con cui Battisti lavorava in quel periodo. Di Cioccio, Mussida e Premoli scriveranno di lì a poco alcune delle pagine più entusiasmanti della storia della musica italiana, e Alberto Radius o Dario Baldan Bembo, per fare solo un paio di nomi, erano certo molto più che abili esecutori.
“Dio mio no” venne scelta come singolo di traino per il disco, ma non ebbe successo quanto altri brani del periodo. In effetti, con i suoi oltre sette minuti e trenta, non aveva la fruibilità tipica di un singolo pop, anche in un mondo che aveva ormai ampiamente consumato e digerito “Hey Jude”. Il brano poi a un certo punto parlava addirittura di una donna in pigiama che si avvicina al protagonista, e venne quindi censurato per oscenità dalla RAI, altra cosa che non aiutò molto la riuscita commerciale della canzone.
Questo affresco raffigurante un falso macho, in realtà un ometto debole e spaventato, resta tuttavia un ascolto piacevole, soprattutto per il suo trasportare l’ascoltatore direttamente in studio, accanto a un Battisti che si concede vocalizzi estemporanei e istruisce in diretta i musicisti.
Stesso discorso per “Se la mia pelle vuoi”, un solidissimo rock and roll dove tutto è pregevole (esecuzione vocale e assoli vari), ma – anche per le limitazioni implicite del genere – nulla è indimenticabile.
E poi beh, “Supermarket”. L’abbiamo tenuta volutamente per ultima.
Se esistesse un ipotetico subreddit r/luciobattisticirclejerk (o qualcosa del genere), “Supermarket” sarebbe la sua “Temporary Secretary”, il brano-meme per eccellenza dell’intera discografia.
Registrata solo voce e chitarra, in modo che sembrasse un demo, il pezzo narra di un uomo che un giovedì qualunque va alla ricerca della sua fidanzata, che lavora come commessa in un grande magazzino. Tuttavia lei non si è presentata, senza dare spiegazioni. «Ammalata forse è», spiega il direttore, che però non ne sa molto.
Il giorno successivo la ragazza (interpretata in un lezioso falsetto dallo stesso Battisti, che fa tutti i personaggi) dà la colpa a un’indigestione di frutta, in particolare banane, in un tripudio di doppi sensi talmente stretti da essere di fatto sensi unici.
Questo nostro grande amore, che sfortuna, oggi stesso finirà – per questioni vegetali, di risparmio e anche di praticità.
Che aggiungere? “Supermarket” è uno spasso, ma non esattamente il primo brano da mandare a un amico che si vuole convertire alla causa.
Pur con tutti i limiti del caso, “Amore e non amore” rimane una tappa fondamentale del Battisti-pensiero: la prima delle tante volte in cui punterà davvero i piedi. «Io propongo delle cose. Vi emozionano, vi piacciono, sì o no?», aveva chiesto due anni prima, esasperato, a un pubblico spigoloso in una storica apparizione televisiva. La risposta fu un “sì” unanime, ma probabilmente non si sarebbe curato poi troppo del contrario.