– di Sara Fabrizi –
Dopo aver raggiunto l’apice della sua creatività, della sua formula magica, e del suo format di racconti di vita di provincia su chitarre fenomenali, affrancandosi da ogni condizionamento esterno fino a risultare sui generis, imprevedibile, non classificabile, cosa fa Ivan?
Avrebbe già potuto raccogliere l’eredità di tutto il suo seminato e ri-assemblarlo, trasporlo in un’epopea live magari, ma questo lo farà in seguito. Invece nel 1981 sperimenta, spinge un po’ al limite la sua formula, insiste sui suoi temi ricorrenti ma si avvita su di essi, diventando leggermente ermetico. Sacrifica le chitarre, che nel lato A dell’album sono quasi assenti, e le riprende con vigore nel lato B, in maniera quasi forzata, come se dovesse farlo per non deludere e per non deludersi. Diventa un po’ autoreferenziale, in altre parole.
È questo che io sento in Seni e Coseni: un esercizio stilistico, una digressione sul tema, una divagazione da se stesso, un atto di libertà artistica piuttosto estremo. Non sono pezzi scritti per compiacere qualcuno, e di sicuro Graziani non pensava a cosa si aspettasse il pubblico da lui, senza ricercare consensi facili. Voleva solo spingere l’acceleratore sulla sua vena creativa, fino a schiantarsi contro il muro del “già noto” e “prevedibile”.
Non che questo sia un album privo di bei pezzi, anzi. C’è ricerca nelle liriche, c’è ricerca negli arrangiamenti. C’è però la figura dell’intellettuale/artista che si barrica nella sua torre d’avorio e parla un linguaggio più astruso per le masse. Mi piace pensarlo così, Ivan, mentre scrive questi brani, rilassato e pago in se stesso, che si prende una vacanza dal suo marchio di fabbrica in realtà traendo nuova linfa per le creazioni future.
E quindi nascono Cleo, ballata d’amore per una donna dal profilo greco, l’uggiosità pomeridiana di Pasqua, la storia d’amore fra la professoressa Lulù e l’allievo poeta e ripetente in Signorina (preambolo forse di Signora Bionda Dei Ciliegi), l’ironica Digos Boogie, il reggae di Ugo L’italiano, il rock blues di Tigre dove torna a dare sfoggio alle sue chitarre.
Non c’è una vera hit che trascina l’album, ma semplicemente un lato A romantico dominato dal piano e con le solite belle liriche (solo un po’ leziose) e un B side musicalmente più vario e rockettaro. Disco di defaticamento, prima di riprendere appieno il suo discorso di racconto del quotidiano in cui ci fa specchiare mentre imbraccia la sua Fender rossa.