– di Sara Fabrizi –
Mi piace iniziare a parlare di Ivan Graziani legando il suo nome a quello di Lucio Battisti.
Come se ne fosse una felice intuizione, una derivazione con vita assolutamente propria, uno spin-off che non lo ricorda propriamente ma che in qualche modo lo omaggia. Una scheggia impazzita nel panorama cantautorale italiano dei 70s, né cantautorato politicamente impegnato, né rock progressivo.
Bensì cantautorato puro. Che fa dei racconti dell’amore, del ricordo, del quotidiano, della vita di provincia il suo fulcro. In una insolita veste rock, giusto sfogo di abilità chitarristiche da geniale autodidatta. E per una semplice coincidenza la carriera di Ivan, quella vera che lo emanciperà dalle alterne fortune degli esordi in formazioni beat 60s, inizia proprio quando incontra Lucio.
Nel 1975 il cantautore teramano è alla ricerca di un nuovo contratto e, nel corso del suo peregrinare per le sale prove di Milano, si ritrova per un’audizione negli studi della mogoliana Numero Uno con cui aveva inciso l’ultimo 45 giri suonato con la sua band Anonima Sound, Ombre vive.
Mentre aspetta il suo turno, strimpella la chitarra: nell’altra stanza c’è Lucio Battisti che, incuriosito, entra per capire chi stesse suonando. Non ci fu altro da aggiungere, ne intuì subito il talento e lo volle nella sua squadra che stava lavorando all’incisione del suo nuovo disco La Batteria, Il Contrabbasso, Eccetera.
La genesi di Ballata Per Quattro Stagioni iniziò proprio nei mesi di lavoro a stretto contatto con il gruppo di Battisti. L’atmosfera che si respirava fu per lui fonte di ispirazione e gli diede quel guizzo di coraggio per lanciarsi nell’avventura solista, con il benestare o meglio l’appoggio morale di Battisti. Mi piace pensare ad una sorta di osmosi di creatività, genio e sensibilità. Un libero fluire di idee, parole ed arrangiamenti bidirezionale da Ivan a Lucio e viceversa.
Entrambi personalità non allineate e non incastonabili nelle scuole di pensiero cantautorale dell’epoca. Due esempi di arte libera, perché non ossequiose alla funzione sociale della musica anche quando raccontano le storie della collettività. Punti di vista interni, narrazioni intimiste. Ma talmente belle da assurgere a patrimonio comune e condiviso. Con Claudio Pascoli alla produzione e ai fiati, Lucio Fabbri agli archi, un diciottenne Walter Calloni alla batteria, Hugh Bullen al basso e Claudio Maioli alla tastiere, Ivan partorì il suo primo vero album solista.
A cavallo fra gli “esperimenti” della gioventù e la sua affermazione definitiva (ma mai troppo commerciale), questo non è un album chitarristico come ci aspetteremmo. Non è il luogo dove riversa le sue potenzialità di chitarrista rock e romantico. Non è ancora I Lupi. E’ un album di pianoforte, fiati e ottoni. E’ una narrazione delicata ed orchestrale di quei temi intimi, amorosi e giornalieri che qui anticipa senza farne ancora un marchio di fabbrica, quello per cui diverrà unico e riconoscibile fra 1000.
La title track la si ama. Nella sua circolarità, nelle sue 4 strofe ognuna dedicata a ricordi e suggestioni della stagione relativa. Può sembrare un’operazione così semplice abbandonarsi alle memorie e trasporle in musica. Ma la semplicità è poesia. Quell’intro di piano che poi si apre a una batteria delicata e ai fiati. Tutto si allarga e si estende ed ecco che con fare impressionistico vediamo ciò che sentiamo. Il sincretismo dei nostri sensi attiva sinapsi improvvise e ci troviamo totalmente immersi in un racconto che potrebbe essere benissimo la nostra vita. L’altro grande lento è il brano di chiusura, E Sei Così Bella.
Ancora chitarre solo accennate, piano predominante e fiati e flauti in bella vista raccontano un amore vissuto con candore estremo e totale dedizione. (“E sei così bella che per te morirò”). Strano che il primo album di Ivan, che verrà sempre ricordato per essere il cantautore rock, non sia un biglietto da visita del suo amore e talento chitarristico. Come se fosse tutto lasciato più alle soluzioni musicali della sua formidabile squadra di musicisti che non al suo estro. Come se in quel pullulare di talenti Ivan avesse voluto ricavarsi uno spazio tutto suo ma non troppo.
Si mette in proprio, ma lo fa con cautela. Anticipa, fa presagire, offre assaggi di quello che verrà, ma in maniera non palese facendoci, piuttosto, perdere in un labirinto di melodie ancora debitrici del prog. Tra i 10 brani dell’album l’unico episodio davvero rock è la strumentale Trench, dove le chitarre sono immerse in un contesto piuttosto fusion. Per il resto brani che spaziano dall’amore (Il Mio Cerchio Azzurro, Come) al ricordo (Dimmi Ci Credi Tu?) alla vita di provincia (I Giorni Di Novembre, La Pazza Sul Fiume) al grottesco del quotidiano (Il Campo Della Fiera, brano del ’73 di sola chitarra ora arricchito in questa nuova versione). Tutto giocato sulle atmosfere di fiati, ottoni e sax sotto l’egida del piano bello e prog settantino. Un’apertura non col botto, ma che di certo incuriosì e pose all’attenzione di tutta la scena musicale un talento sui generis che per troppo tempo aveva covato in vie sotterranee.