Renzo Rubino è tra i migliori autori musicali italiani della nuova generazione. Terzo classificato a Sanremo 2014, ha pubblicato di recente il nuovo album Come un gelato dopo il mare, splendido lavoro di canzone d’autore. All‘Indiegeno Fest 2017, sulle sabbie di Patti Marina,lo abbiamo incontrato prima della sua esibizione, per farci raccontare le “Distillate meraviglie” della sua Terra e della sua Musica.
Un nuovo disco uscito all’alba della primavera, “Il gelato dopo il mare”. Dopo 3 anni circa dal precedente, ricercavi quella sensazione di piacere intenso, leggero, di “bello dopo il bello”?
Bisogna capire cosa c’è dietro il bello. Sotto certi punti di vista rappresenta la casa, la Puglia, cose che non avevo fatto e lasciate da parte per concentrarmi sulla musica. Il mio bello era la nostalgia nei confronti di casa, ed è un bel sentimento, sottovalutato. Quindi son tornato a vivere in Puglia per riassaporare le cose belle, semplici e banali come un gelato dopo una passeggiata a mare. Qui ho trovato l’ispirazione e la voglia di riscrivere un disco.
Hai parlato del piacere di “rallentare”: per gustarsi le cose belle prima che passino?
Corriamo un casino, tutti nella propria giungla e si perde il senso e il perché di dove si vuole arrivare. Una delle mie parole simbolo è “lentezza”, dove risiede il gusto, la ricerca, la voglia di scoprirsi. Sono anche molto pigro, e il non far niente è una gran cosa.
“La la la”: sembra invocare quella spensieratezza e libertà, quasi rivendicandola. Un gelato che fa male e uno schiaffo che è dolce. Come si fa a ricordarci di non perdere mai quel “lalala”?
Bisogna stare meno attenti, più liberi nel mostrarci, sbattendo la testa ed essendo goffi e incasinati. La bellezza racchiude le imperfezioni. Dico anche che “indossare un cappello non fa di te un artista”.
Cosa unisce Papa Francesco a Sorrentino?
Sono due persone libere. Papa Francesco, benché non abbia un buon rapporto con fede o Chiesa, mi sembra un uomo in gamba, rock’n’roll, mentre Sorrentino è uno dei miei artisti preferiti, ha un modo di vivere molto vicino al mio.
Hai sentito la responsabilità del successo?
Non ne ho sentito il peso e non è mai cambiata la mia percezione della vita. Sanremo è stata una tappa importante, divertentissima e che consiglio a tutti di fare: è più divertente farlo che guardarlo. Sanremo è come la Mamma, ha acceso un faro su di me, mi ha dato cose positive. Poi bisogna dare un bacio alla mamma e dire “io vado,” e seguire un tuo percorso. Prima deve uscire fuori la musica che faccio, poi il mio nome e cognome se è importante, poi la faccia e il viso.
In Italia, un certo tipo di canzone viene chiamata “d’autore”, quando la presenza di chi canta e di chi scrive è un valore che si aggiunge alla musica stessa. Il famoso “cantautorato”. Pensi che oggi, dopo un periodo dove i talent sembravano lanciare perlopiù interpreti, serva rivendicare l’autorialità, la particolarità dello scrittore?
Mi annoia chi si definisce cantautore, poeta o si autodefinisce in genere. Io mi sento più un performer che crea qualcosa, i cantautori per quel che mi riguarda son morti tutti: De André, Dalla, Jannacci, hanno inventato un modo di essere e di scrivere. Oggi dopo un periodo buio c’è la voglia di andare oltre, di scoprire la musica oltre la tv. Non è detto che “oltre” sia meglio, anche se c’è sicuramente di meglio nell’oltre.
In “Cosa direbbe Lucio” sembra di sentire il punto di fusione tra Modugno e Dalla. Come la vivi la tradizione del cantautorato? Nel proporre dei contenuti nuovi scritti da te?
È molto difficile “affidarsi”. Io mi affido alle persone per cose che non so fare. Gli arrangiamenti degli archi dei miei dischi li ha fatti un signore che li faceva per i dischi di Modugno. Anche per lo scrivere è lo stesso: io scrivo solo quello che mi diverte, mi fa sfogare e rende libero. È un mio modo di essere godereccio, ma non detto che sia la cosa giusta da fare. Ovvio che non mi affido a un altro, perché quelle cose le vivo io. Preferisco scriverle che faccio prima. Il mio modo di essere unico, nel mio piccolo spazio, è l’unicità del raccontare le cose.
Come definiresti il processo creativo legato alla scrittura musicale?
Scrivere è una cosa brutta. È goduriosa la parte finale, quando ascolti suoni e canti, ma il processo che porta alla scrittura è difficile, antipatico. Non sono uno che dice “adesso scrivo una canzone” perché mi annoia molto. Quando scrivo belle canzoni sento qualcosa che arriva da qualche parte e la canzone è già scritta, poi tocca a te scoprire cosa c’è dietro questa sensazione. Ma scrivere non appartiene necessariamente al musicista, ci sono elementi che la nostra mente riesce a calcolare e a trasformare in canzoni per qualche motivo che non è spiegabile, bisogna prima ascoltare.
In che modo la tua terra, la Puglia, entra nel tuo modo di vivere la musica sia nel raccontarla?
La lentezza, l’essere goduriosi… questo è la Puglia: lentezza e goduria. Offre una bellezza incredibile, legata a un forte amore per la cultura e le tradizioni, una terra ancora inesplorata sotto certi aspetti, ed è bello riscoprirsi e reinventarsi lì. Il disco è stato registrato lì per dare un segnale. So che è importante andare in giro, ma quando lo faccio sento di abbandonare qualcosa.
Una ritrovata dimensione domestica?
Ho finalmente trovato una casa, fin da ragazzino son stato nomade. Quando son tornato, dopo i festival mi son sentito a casa e non avevo mai vissuto questa sensazione. Per la prima volta l’ho sentita e ho detto “metto un semino”, così nel frattempo posso muovermi sapendo di aver seminato qualcosa.
Ti abbiamo visto impegnato in “Fiabe distillate meraviglie”, un vero evento che hai pensato e organizzato nella tua terra. Ce ne racconti?
È stato un evento assurdo, pazzesco. Volevo tirar fuori quello che avevo nella testa. I miei due film preferiti sono Big fish e Man on the moon. Come nel film di Tim Burton c’è un protagonista che racconta storie senza sapere se sono vere, e lo stesso faceva Andy Kauffman. Volevo creare qualcosa che destasse meraviglia. Volevo ricreare Big Fish, ed era così: c’erano i trampolieri, c’era la ragazza che faceva le danze col nastro, c’era il pianista di Modugno che suonava, Francesco Tricarico che urlava le sue canzoni a squarciagola da un balcone. Era una cosa folle, ma è stato un bel momento.
La foto di copertina è di Matteo Casilli