“Mi si legge in fronte il caos che ho dentro”. Sono solo le prime parole dell’album, quelle sincere che danno il via ad un processo lungo dodici canzoni, tutte quelle del disco, in cui Levante si mette a nudo, si sfoga, si racconta e si apre come potrebbe fare con quello che probabilmente è diventato il suo amico intimo più importante: il pubblico.
“Nel Caos di Stanze Stupefacenti” è lo specchio limpido e cristallino di un’artista che dopo i numeri incredibili e la costante ascesa all’interno del music business, capisce che l’arma più fedele che ha per non deludere e cadere nella sorda ridondanza è la sincerità. Il punto focale delle canzoni è sempre uno e uno solo, che si parli di amore, di internet o della vita, l’IO fa da padrone assoluto, come un attore che non vuole scendere dal palcoscenico e urla forte il suo nome anche quando oramai le luci sono spente e il pubblico si è ritirato.
Levante dipinge la sua “me stessa” come la cosa più preziosa, e non esistono Io, Super Io o Esse, tutto è flusso di considerazioni e pensieri, di stati d’animo e tormenti: si può risorgere dalle più cocenti delusioni (“Gesù Cristo sono Io”) o ritrovarsi a voler fuggire dalle proprie complessità (“Le Mie Mille Me”), ma mai si disperde il nucleo essenziale e vitale.
Musicalmente l’album si presenta completo e convincente, con arrangiamenti che utilizzano tutti i colori principali delle produzioni moderne, spaziando dall’elettronica all’orchestra, sintetizzatori e pianoforti, e non sarebbe mai potuto mancare lo spazio per il singolone con ospite d’eccezione (Max Gazzè in “Pezzo di Me”)
Levante ha fatto davvero centro: è riuscita ad entrare in maniera prepotente nel business della musica senza buttare alle ortiche la sua libertà artistica, dimostrando grande personalità e incastrando tonnellate di belle note una dietro l’altra, descrivendosi attraverso testi semplici ed efficacissimi.
L’anello d’oro di congiunzione tra indie e mainstream.
Francesco Pepe
Più che “Pezzo di me” c’è “puzza di me”. Giochi di parole scortesi a parte, “Nel Caos di Stanze Stupefacenti” di Levante non supera l’esame della rilevanza artistica. Fra tentate emulazioni vocali di Arisa e rigogliosi impasti pop, ciò che rimane è la sensazione che Levante sia il disperato tentativo di rendere mainstream le paranoie indie, senza riuscirci fino in fondo.
L’essenza della musica della cantautrice torinese è tutta racchiusa nel singolone “Non me ne frega niente” dove il dito puntato più che condannare l’altro intrappola la Regina Claudia in un narcisismo e un’autoreferenzialità da Stronza 2.0, esteta del commento piccato sui social, manifesto dell’Effetto Dunning-Kruger dello snobbismo qualunquista.
Anche “Gesù Cristo sono io” non scherza e il paragone con il Messia è funzionale soltanto a esacerbare elucubrazioni mentali che vogliono avere la sembianza di paturnie amorose, senza però riuscire a ingannare l’ascoltatore. Se, infatti, il tema dell’amore è il traino dell’intero disco, l’attenzione è sempre rivolta all’interno, alla propria reazione all’amore e non all’oggetto del proprio amore. Oggetto che, naturalmente, diventa soltanto un altro pretesto per parlare sempre e soltanto di sé. A infastidire di Levante, fondamentalmente, non è nulla, perché il narcisismo di cui sono condite tutte le canzoni rende quest’opera irrilevante. Musicalmente non c’è niente da dire. I pezzi sono arrangiati in maniera furba e accattivante come ogni pezzo pop è costretto ad essere nel 2017.
C’è qualche scivolone (“1996 La stagione del rumore” è scopiazzatissima da “Sing” dei Blur, come se si trattasse di un tributo agli anni ’90 che porta nel titolo) e, qualora ci fosse bisogno di specificarlo, non c’è nessuna ricerca musicale. C’era da aspettarselo in un album che intende essere una consacrazione definitiva al pop nazionale. In ogni caso, le “mille me” di Levante non incantano, non stupiscono, ma fanno il lavoro sporco, senza rendersi indispensabili e senza dire qualcosa di rilevante. Questi pezzi non diventano interessanti fino a che non ci si interessa alla persona che le ha scritte. E, melodie pop a parte, se la musica diventa secondaria alla fame di successo, allora non c’è bisogno di scriverne. In fondo, c’è sempre Instagram.
Giovanni Flamini