Titolo forte, visionario e decisamente riassuntivo per quella che è la bellezza sintetizzata dei Random Clockwork. Si intitola “Wires” questo disco d’esordio che suona in perenne equilibrio tra la new wave delle sperimentazioni anni ’80 e le trasgressioni digitali della tecnica di questi anni computerizzati. E gira un disco ricco di fascino e di personalità dove forse manca la sfacciata bellezza di una melodia che prende senza risparmiare nessuno…
Però in questi inediti scritti dal producer Valerio D’Anna c’è la spiritualità delle connessioni umane, della vita sintetizzata in metafore poco scontate dentro liriche che non si lasciano afferrare nell’immediato consumo. “Wires” ci riporta alle urbanizzazioni futuristiche di quando le grafiche erano pixelate ma, dalla loro, non ci stanno a restar vecchi e si contaminano di un suono che è figlio di questo futuro. E in brani come “Memento” si sentono le tinte nascoste di un rock metallico che davvero non guasta mai come le onde aggressive di “Wires” che alla lontanissima richiamano i più cattivi presagi di Marylin Manson in “Tainted Love” o le più parche soluzioni dei mostrati TdO. Ma non è un disco di rock questo “Wires”, anche se, di quando in quando, alcuni arrangiamenti sembrano andarci contro. É un bellissimo disco di new wave di aggressioni spirituali internazionali. C’è tutto… e c’è anche il contrario di tutto.
L’estetica è un binario di dialogo molto forte per voi. Mi colpisce innanzitutto questa maschera sul volto che ha sembianze d’animale. Cosa significa?
Come le tematiche dei testi vengono trattate da un’angolazione diversa e spesso impersonale, così la maschera è un elemento di suggestione, utilizzato per fare uscire lo spettatore dalla concezione io/uomo.
Perché poi ad un certo punto cade?
In primis perché non vogliamo usare le maschere per creare mistero o nascondere le nostre identità. Inoltre, in tutta onestà, suonare per tutto il concerto con le maschere sarebbe estremamente faticoso.
E poi i video ufficiali che sono davvero efficaci. Come nascono?
Nascono dalla fantastica collaborazione con il nostro video maker Giorgio Gerardi, una persona che ha la nostra stessa visione ed è stato in grado di convertire in immagini la nostra musica. È sempre stato un nostro sogno avere dei videoclip di questo calibro, e lui lo ha realizzato.
“Wires” è un bellissimo disco dell’era digitale. Ma sento tantissime radici del passato nella scrittura o sbaglio? Qualche nome da citare?
Non sbagli assolutamente. La musica che spesso ci segna nel corso della vita è quella che si ascolta nel periodo dell’adolescenza, e noi l’abbiamo vissuta negli anni Novanta. I nomi sarebbero molti, uno su tutti sicuramente i Nine Inch Nails, che già all’epoca sfruttavano il digitale in maniera decisamente futuristica per il periodo.
E in uno scenario digitale assai “spinto”, ricco di impressioni visive e di viaggi nel tempo… come mai questa cover bianca?
L’intero album tratta tematiche molto eterogenee e quindi solo un’immagine “neutra” poteva assumere il ruolo di copertina che rappresentasse il disco nella sua totalità.
Un esordio corale, della vostra musica, della scrittura del vostro producer, di arrangiamenti che non attingono mai nel “reale”. Una risposta “new wave” (se mi concedete la sintesi violenta) alla canzone indie-pop di oggi?
Abbiamo solo seguito il nostro gusto musicale ed espressivo, senza considerare se ci stessimo allontanando o meno dalle tendenze odierne. Sicuramente lo abbiamo fatto.
A chiudere: il prossimo video? Avete già in mente qualcosa?
Stiamo lavorando su diverse idee, ma è ancora presto per parlarne.