– di Giacomo Daneluzzo –
I Queen of Saba sono un duo veneto formato da Sara Santi e Lorenzo Battistel che si muove tra nu soul, R&B, hip hop e pop. In attività dal 2019, dopo una lunga serie di live e la pubblicazione di cinque singoli in inglese, i due pubblicano nel 2021 Fatamorgana, il loro album d’esordio, interamente in italiano. Co-fondano l’etichetta indipendente La Colletta Dischi e nel 2023 è la volta di Medusa, il loro secondo album, anticipato nei mesi precedenti dalla pubblicazione di diversi singoli; l’album, distribuito da Believe, vede la partecipazione di BigMama, Ganoona e Willie Peyote, nome di spicco della scena di Torino, città in cui attualmente vive Sara. Un elemento fondamentale dell’identità artistica dei Queen of Saba è la loro partecipazione attiva alla lotta per il riconoscimento dei diritti civili, in particolar modo rispetto al mondo LGBTQI+ e alle identità non binarie, etichetta di cui Sara si fa foriero, affrontando queste tematiche anche come autore dei testi del gruppo.
Sono stato alla presentazione del loro disco la sera in cui è uscito, al Joy Bar di Milano (serata organizzata dalla redazione di Scomodo), e – pur seguendo il loro progetto fin dagli esordi – ho avuto modo di conoscerli di persona e di sentire l’intimo mini-live che hanno organizzato per l’occasione, che mi ha messo di fronte al grande talento performativo di entrambi.
Ho deciso di intervistarli poco dopo, e questo è ciò che mi hanno raccontato del proprio progetto e di Medusa, disco – solo apparentemente – ballereccio e dai toni leggeri, le cui tracce in realtà hanno parecchio da dire. All’inizio dell’intervista Sara stava mangiando pane e cioccolato vegano.
Vorrei usare una parte dell’intervista per parlare di identità non binarie. In Italia non ho in mente artisti pubblicamente non-binary, mentre all’estero qualche nome c’è: per esempio a me piace molto yeule, poi so anche LP e Lil Uzi Vert hanno fatto coming out.
Se no Kae Tempest e Sam Smith. I nomi che abbiamo citato rendono bene l’idea di quanto sia varia l’esperienza non-binary. Io [Sara, nda], quindi, posso parlare della mia esperienza.
Di quest’etichetta, in cui mi riconosco, mi piace il fatto che sai una non-etichetta; è uno statement politico. Riconoscermi in questa categoria è la verbalizzazione di una cosa che sono sempre stato e che ho fatto fatica a comprendere e accettare anche perché mi mancava il vocabolario per esprimerlo. Credo che sia importante, sento anche una sorta di responsabilità – pur non essendo una figura pubblica ai livelli delle persone citate – dare questo tipo di rappresentazione, perché non ci sono molti esempi e non se ne parla molto, ma è un’esperienza che in realtà accomuna molte più persone di quante si possa pensare. Io percepisco, nella mia bolla, un rifiuto per il binarismo di genere, che si concretizza sia nel dare un nome a un’esperienza personale, che potrebbe anche avere poco o niente a che fare con quella di altre persone, sia nel dare un segnale di rifiuto del binarismo in cui siamo inseriti.
Il modo in cui io intendo l’essere non-binary è difficile da spiegare. Alle persone cisgender può anche andare stretto il ruolo assegnato loro dalla società, ma non si trovano nella condizione di non riconoscersi nell’idea di uomo o di donna. il non-binarismo fa parte della categoria trans, che si può dividere in persone trans binarie e non binarie; queste ultime non si riconoscono in nessuno dei due generi – oppure si riconoscono in entrambi, considerando l’identità di genere come uno spettro. Dire di essere non-binary è la risposta a una serie di domande che ci siamo sempre fatti e alle quali non abbiamo mai trovato delle risposte: perché mi sento a disagio – nel mio caso – nei vestiti femminili? perché mi dà fastidio quando dicono che sono una cantante? perché sento la necessità di “sgonfiare” l’impressione che hanno le persone che mi vedono come un individuo femminile, magari usando i pronomi maschili?
È bello parlarne anche in termini positivi, ogni tanto, perché quando si parla di persone trans (soprattutto in Italia) c’è molto questa narrazione del dolore e della sofferenza, che sono parti molto presenti nell’esperienza trans, purtroppo, ma non tanto per il fatto di essere trans quanto piuttosto per come la tua comunità reagisce al fatto che tu lo sia. Per me è un tema molto importante, che ho cercato di portare anche nei testi. In particolare nel testo della prima canzone dell’album, “Principe Regina”, che parla appunto dei lati positivi, di quanto sia bello riconoscersi in un’identità non binaria.
Volevo arrivare proprio qui, cioè a come questa condizione esistenziale si ripercuote su quello che fai.
Già il fatto di usare i pronomi maschili nel nuovo album (mentre nel precedente usavo ancora pronomi femminili) è stato un bel cambiamento, per me; tanto che per me il fatto di cantare le canzoni del vecchio album ogni tanto diventa una cosa un po’ da gestire perché sento un po’ di dissociazione dalla persona che ha scritto quei testi, perché nel frattempo sono successe delle cose.
L’uso dei pronomi maschili per me è nato quasi come uno scherzo. La prima volta che ho usato pronomi maschili è stato quando a una festa di Halloween mi sono vestito da Zac Efron zombie, che aveva subito una serie di tragedie ed era morto di overdose. Andavo in giro a raccontare questa storia con la mia palla da basket, a cui ero legato per sempre nella mia vita da zombie, e quella sera per la prima volta mi sono presentato al mondo con i pronomi maschili, dicendo che mi chiamavo Zac. Avevo anche la barba. Dopo ci ho ripensato e ho capito che presentarmi alle persone come Sara ma usando i pronomi maschili era qualcosa che volevo provare per vedere come mi sarei sentito. Mi ero trasferito a Torino e nell’immediato futuro avrei conosciuto molte persone nuove. Da quest’esperienza sono nati vari testi. È qualcosa che mi porto dietro da sempre, ma per molto tempo non avevo le parole per esprimerla. Trovare queste parole, così come scoprire che ci sono altre persone nel mondo che le usano, mi ha dato una gioia indescrivibile.
Se vivessi in un paese anglofono penso che userei i pronomi neutri. Aspiro a diventare, un giorno, una sorta di ninja dei pronomi e non curarmi più di come la gente mi chiama. Però al momento è come se dovessi liberarmi di tutto ciò che i pronomi femminili hanno comportato e rappresentato nella mia vita finora, quindi ho bisogno di fare come un po’ di pulizia, per poi magari riabbracciarli con consapevolezza e serenità.
Passando all’album, Medusa, come prima Fatamorgana e forse anche di più, è dedicato a una figura femminili ambigua e con dei lati orrifici. Alla presentazione l’hai definita “fraintesa”, ma come si può rileggere questo personaggio in un’accezione positiva?
È una bellissima domanda. Intanto inviterei tutti a leggere una rendizione del mito che ne racconti l’origine: è una storia molto interessante, che ci dà la possibilità di empatizzare molto di più con questo personaggio, piuttosto che partendo direttamente dalla “scena madre” del taglio della testa, la raffigurazione “mainstream”, quella che è arrivata fino a noi, all’immaginario collettivo. L’interpretazione positiva di Medusa, quindi, passa per una riscoperta della sua origine, ma anche in una diversa interpretazione della sua identità. Dopo aver deciso di chiamare l’album Medusa abbiamo scoperto che le primissime raffigurazioni di Medusa la raffigurano come un corpo androgino, oserei dire un corpo trans: una persona con gli attributi del seno femminile e della barba. Nel mondo di oggi può capitare di vedere un uomo trans col pancione, per esempio, pian piano queste “non conformità” rispetto a quella che è stata considerata la norma per molto tempo cominciano a colorare sempre di più il nostro immaginario; potrebbe quindi essere l’occasione per riscoprire questa versione di Medusa e legarla a quello di cui vogliamo parlare, cioè alle persone che non si riconoscono nel binarismo di genere, nell’idea di un’identità di genere predestinata, predeterminata, ma che costituiscono la propria identità sulla base di ciò che sentono di essere. Medusa diventa la capostipite di questo modo d’intendere l’umanità, di questa interpretazione non conforme dell’umanità: nel mito la sua figura è mostruosa e maligna, come sono spesso dipinte le persone trans e non conformi anche nella contemporaneità: è questo il lato orrifico e la paura di quest’aspetto è purtroppo ciò su cui fanno leva molte persone e organizzazioni per promuovere l’idea che queste persone non appartengano al “puro” genere umano, cioè “uomo” o “donna” e basta, finisce lì, che però non corrisponde alla realtà. Chiamare l’album Medusa vuol essere un invito a lasciare spazio a quegli aspetti di noi che possono spaventare ma che, una volta abbracciati, aprono a nuovi orizzonti.
La riflessione identitaria prosegue quindi dalla vostra storia personale anche nel vostro percorso artistico; inoltre anche dal punto di vista prettamente musicale quello che fate non ha un’identità unica, definita in modo rigido, ma ha più anime che convivono tra loro. Possiamo quindi vederci una continuità rispetto a queste riflessioni?
Abbiamo sempre giocato sul fatto di essere “senza genere”, di non essere definiti tanto dal punto di vista del genere come costrutto sociale quanto da quello del genere musicale. Sono tutte cose venute fuori spontaneamente nel nostro percorso: il nostro “spaziare” musicalmente non è una scelta, è solo l’esito della nostra volontà di unire le miriadi di differenze e di interessi che abbiamo noi due: gusti, emozioni, momenti di vita.
Tanta musica che scriviamo inoltre è proiettata verso come poi sarà il concerto: abbiamo un lungo storico di live, anche prima di questo progetto, abbiamo suonato tanto ed è un aspetto che possiamo dire principale della nostra vita artistica. Questo si riflette anche sulla scrittura delle canzoni: «Come sarà nel momento in cui le suoneremo dal vivo?» e in questo modo si può capire anche una differenza che c’è tra Fatamorgana e Medusa: in questo caso eravamo proiettati più verso l’ambiente dei club, perché sapevamo che avremmo fatto il nostro primo tour nei club.
“Rave in the Casba” è in effetti un po’ un tormentone, decisamente da club.
Ci abbiamo provato e da quello che ci dici ha funzionato! È una canzone per far ballare, c’è una grande attenzione al groove, ai BPM, al tiro di ogni strumento.
Secondo me è anche un brano che riassume particolarmente bene quello di cui abbiamo parlato, perché musicalmente ha proprio due anime diverse.
È una canzone che ha subito un po’ di rallentamenti, poi, a un certo punto, abbiamo incontrato Ale Bavo, con cui l’abbiamo co-prodotta e che ci ha anche dato una mano a trovare una direzione – che comunque è abbastanza larga, perché puoi trovarci dell’hip hop ma anche palesemente del pop, mentre il ritornello crea un’atmosfera molto diversa rispetto alla strofa. La strofa non vuol essere seria, anzi, l’idea era proprio quella di smorzare un po’ il ritornello con la strofa: il rap consente anche di cavalcare con un po’ di leggerezza anche temi pesanti.
È una canzone che parla di salute mentale e di non riuscire a dormire di notte. La prima bozza era più peso di così, perché il testo parlava di un evento molto tragico che mi è capitato quando avevo diciassette anni, era dedicata a una mia amica che ha fatto un brutto incidente in macchina ed era molto più pesante di quello che si può sentire adesso. Nel momento in cui l’abbiamo ripresa e fatta evolvere invece è diventata un banger.
Sì, è decisamente il vostro banger.
Sì, lo è, ma si è trascinata dietro un po’ di questa oscurità. Riascoltandola io [Sara, nda] percepisco una serie di sensazioni che conosco molto bene, tra cui la sincera disperazione che provo quando vedo il sole che cala di pomeriggio, d’inverno. Sono sensazioni che secondo me sono riuscite a entrare comunque nel pezzo, anche se il resto è tutto un giocare con citazioni a Salmo eccetera. Hai centrato perfettamente, esprime molto bene le nostre due anime, anche il nostro essere capaci di prenderci poco sul serio da una parte, parlando dall’altra di salute mentale e problemi non indifferenti.
Quindi direste di essere entrambi due persone più estive che invernali?
Eh, sì, cavoli. Sì, certo. Ma chi non lo è, dai? Poi c’è anche la depressione stagionale.