Il paradiso non è come lo raccontano. Anzi, semplicemente non è. Anche perché, a dire il vero, non ho ancora ben capito dove mi trovo. Non sono dove son sempre stato, questo è evidente. Non saprei dire cosa mi infonde questa consapevolezza ma il ricordo di tutto ciò che è sempre stato, non collima con nessuna delle immagini, rumori, presenze che avverto tutto attorno. È tutto un insieme di sensazioni e, hai visto mai, potrei anche essere sprofondato in un sogno dal quale presto mi risveglierò ma al momento mi tocca adeguarmi. Devo farlo. Odio restare indietro, perdere terreno, fare la scelta sbagliata perché ho avuto paura di aprire gli occhi. In questo non luogo tutti si muovono in modo confuso, senza ruolo, quasi come in una grande stazione ma senza treni in partenza o in arrivo. Senza binari. Senza un perché, insomma. All’improvviso qualcuno si accorge di me. “Ciao, io sono la tua guida” mi dice uno strano tipo, venendomi incontro. Indossa un giubbino di pelle nero e adesso è a un passo da me e mi porge la mano. “John Graham Mellor, molto lieto” e di fronte al mio stupore, tradottosi in una paralisi fulminante, è costretto a ripiegare verso la mia spalla. È una pacca molto amichevole ma che comunque non risolve granché. Allora mi fissa deciso negli occhi e dice sorridendo: “should I stay or should I go?”. Raccolgo le residue facoltà mentali e sussurro con fatica: “stay, per carità, stay”. L’emozione di trovarmi al cospetto di Joe Strummer è pari solo al rammarico che lui possa aver pensato che io non lo abbia riconosciuto.Mentre studio una qualsiasi frase che possa attenuare il mio senso di colpa, siamo già l’uno accanto all’altro, come due vecchi amici che non si vedono da tempo e si raccontano passeggiando in riva al mare. Ma non c’è nessuna riva. E neanche il mare. Ma soprattutto l’unico che ha qualcosa da raccontare è lui. Dal mio canto la buona notizia è che la paralisi non ha compromesso l’udito. Mi spiega, con un garbo e un’eleganza davvero poco rivoluzionari per uno che ha punkizzato l’universo, che gli hanno affidato il compito di guidarmi nel viaggio attraverso l’isola che avevo scelto (isola? scelto?) e in cui avrei visto e incontrato quello che avevo sempre desiderato. Mi trovo su un’isola, dunque. Di certo siamo ancora nell’entroterra, su questo non ci piove. Sono circondato da sagome che si sovrappongono veloci verso una infinità di direzioni diverse mentre tutto intorno niente è definito. Il paesaggio, le strade, l’agglomerato urbano. Sembra di respirare all’interno di un quadro di Renoir. Un’isola, io, il signor Clash e i miei desideri lungo la strada, dice lui. Cerco il coraggio per interagire ad armi pari. Lo trovo e dico: “Hey Joe, dimmi la verità, sono morto e mi trovo nell’aldilà?”. Lui continua a camminare, io sono dietro di qualche passo e senza voltarsi mi dice: “La vera domanda, caro Ivano, è se tu sia mai stato veramente vivo”.
Adesso siamo fermi di fronte ad una specie di palco. Noi giù, con i piedi che accarezzano un parquet bianco. Sul palco spicca una vegetazione rigogliosa, quasi esotica e al centro, su una sedia, si intravede una macchia di capelli neri, china su una chitarra. Ma potrebbe anche essere un cespuglio. Sta suonando, sembrerebbe, ma io non riesco a sentire. Mi rivolgo alla mia guida: “Hey Joe…”. “Quella è Voodoo Child, Ivano”. Allora chiudo gli occhi e finalmente sento anche io il cespuglio che suona. Le note attraversano ogni poro della mia pelle, come se fossero miliardi di piccole orecchie. La stereofonia è un lontano ricordo. Un concetto obsoleto. “Vieni, andiamo”, la mia guida è già schizzata avanti. Guardo il palco, lancio un “ciao Jimi” e mi affretto a recuperare i metri che mi separano dal dottor Clash. Una volta celeste con sfumature rosa ci segue dall’alto. Stiamo camminando attraverso una sorta di corridoio a cielo aperto. Se fosse Parigi saremmo nel cuore del Quartiere Latino. Ma questa è la mia isola. L’hanno disegnata per me. O forse l’ho disegnata io. Mentre mi perdo in vane elucubrazioni, Joe mi prende per il braccio e mi indica un tavolo al sole. Seduti, a sorseggiare vino rosso, un uomo e una donna. Sembrano coetanei. Lui di una bellezza che lascia senza fiato, lei bruttina ma non si riesce a staccarle gli occhi di dosso. Ridono senza mai guardarsi. La luce accarezza i visi. Qualcosa dentro di me si muove. Jeff Buckley e Janis Joplin, uno accanto all’altra, sulla mia isola a ridere di gusto. Non ci fermiamo mai. Rallentiamo, di tanto in tanto, ma il nostro passo è sempre vivo. In mezzo al corridoio, messo di traverso, un tavolo da biliardo e quattro tipi che, tra un ingessata alla stecca e un sorso di birra, discutono animatamente di cinema. Chiedo delucidazioni al signor Strummer. Vic Chesnutt, Elliott Smith, Nick Drake e Mark Linkous. Secondo i primi due il cinema dovrebbe essere muto e lasciare le parole alla musica. Per gli altri, invece, i film dovrebbero non avere un finale e neanche un inizio. Solo spaccati incidentali che possano ricordarci che siamo di passaggio, in questa vita. “Hey Joe, cosa sono quelli?” chiedo io, indicando uno strato di pallini gialli sul pavimento. “Sono dei ceci” risponde lui, “stiamo aspettando un certo Gigi D’Alessio, pare che gli toccherà stare inginocchiato per un po’ ad ascoltare le lezioni del maestro Gershwin. Lo vedi laggiù, alla cattedra? Aspetta. È un tipo molto paziente”. Più in là, incrociamo un tavolo ricoperto di posacenere, tutti pieni di mozziconi. In uno di questi, una sigaretta accesa attende che qualcuno le dia un senso stringendola tra le dita. “Chi è quel biondino ingobbito sul cubo di Rubik?”, chiedo al mio mentore. “È Kurt Cobain” mi risponde, “di tutte le sigarette che vedi non ne ha fumata nemmeno una. Le accende, le poggia, e torna ad arrovellarsi sul cubo. Quando si fissa su una cosa è tremendo”. C’è anche lui, Kurt. Perché non ci fermiamo a chiacchierare? Perché andiamo così di fretta? Forse sto davvero sognando e la scrittura del copione non porta la mia firma. Ho sempre pensato che fosse la bella musica a scegliere i suoi divulgatori. Che gli autori non avessero alcun merito, fossero dei depositari, semplicemente un mezzo inconsapevole. Ma mi sbagliavo. Non può essere così. È un germe in incubazione, la bella musica. Spesso ti lacera, ti dilania. Ma il musicista è come una madre al momento del parto: non si tira mai indietro.
Ora lo scenario è cambiato. Joe mi sta davanti e io lo seguo senza rendermene conto. Stiamo attraversando un lungo ponte di legno, sospeso sul nulla, senza fiumi che scorrono al di sotto o pilastri che lo ancorino a qualcosa. L’atmosfera è comunque serena. Seduti a chiacchierare, su una panchina, Ian Curtis e Fabrizio De Andrè. Il primo ascolta compunto il secondo che gesticola senza compromettere l’eleganza della postura. Parlano d’amore e lo si legge nei loro occhi. Chiedo se incontreremo Lucio Battisti. Solita storia, non ama farsi vedere in giro. Mi sfugge la percezione del tempo in questo luogo. Non sento la stanchezza, la fame, la sete. Non so nemmeno se al mio interno ci sia ancora una vescica e tutto sia rimasto fedele alle leggi di natura. Fumerei volentieri una sigaretta ma se non l’ha accesa Joe, deve essere sicuramente vietatissimo. Il ponte ci ha catapultati all’interno di un giardino immenso, psichedelico. Un caleidoscopio gli alberi, i sentieri, le siepi e i fiori. Dappertutto persone tutte impegnate in una qualche attività legata alla cura del giardino. Annaffiano, potano, seminano. C’è finanche chi suona alle piante. E c’è lui. John Lennon, in piedi nel mezzo di una distesa di girasoli. Canta senza chitarra e senza microfono. La sua voce e i girasoli. Nella tunica azzurra somiglia a Gesù con gli occhiali di Harry Potter. Giù in fondo alla collina un laghetto e al centro un isolotto. Joe mi spiega che l’acqua è salata e infestata dagli squali e che l’isolotto è riservato agli Smiths. Quando verrà il momento si ritroveranno tutti e quattro e se avranno voglia di suonare dovranno farlo insieme. Prima di lasciare il giardino attraversiamo un parco giochi. Sull’altalena Freddie Mercury e Michael Jackson. Quest’ultimo mi sorride. È il primo ad interagire con me, da quando è iniziato il viaggio. Ora il sole sta tramontando e mi rendo conto che lo fa in un modo mai visto prima. Non cala sull’orizzonte ma si allontana verso l’alto e più sale più la luce si fa fioca. Ci fermiamo io e Joe. Ci fermiamo per non perdere quello spettacolo così punk. “Hey Joe, dimmi la verità, perché si sono sciolti, i Clash?” gli chiedo mentre gli poggio il braccio sulle spalle come a un fratello minore. “È una storia lunga” lui dice. Sorrido: “Abbiamo tutto il tempo che vuoi…”.
Ivano Salomone