– di Martina Zaralli –
È uscito il 29 novembre scorso “Pure si Fosse” di Francesco Forni, il primo brano della sua carriera scritto e cantato in napoletano, con strofe intime e ritornelli corali per narrare una storia d’amore, in cui i suoni della tradizione si fondono con quelli contemporanei. La canzone arriva dopo numerose produzioni che spaziano dalla composizione di colonne sonore per teatro e per cinema a una ricca discografia dove figura in diversi ruoli, come cantautore, come chitarrista, o come compositore. “Pure si fosse” è solo l’inizio di un nuovo percorso per Francesco Forni: un cammino che porterà a un album di inediti, Una sceneggiata, atteso per la primavera 2022 nel quale «il filo conduttore sarà fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni, con le scelte e le non – scelte», come mi anticipa al telefono.
Il 29 novembre è uscito “Pure si fosse”, cosa racconta il brano?
È un appello alla donna amata in un’alternanza di contrapposizioni. A strofe più romantiche seguono ritornelli meno romantici, in cui vivono allo stesso tempo l’ammissione di una bugia e una verità altrettanto forte. Musicalmente c’è la convivenza di strumenti tradizionali, come il tamburello e il liuto, con chitarre e bassi distorti. È una canzone con una doppia anima, con un piede nella tradizione e un altro nel contemporaneo.
È il tuo primo brano scritto e cantato interamente in napoletano, perché questa scelta?
Fino a un anno fa, non avrei mai pensato di scrivere e cantare in napoletano. Ci sono stati poi diversi eventi, in primis un lavoro che ho fatto a Napoli, in teatro, e che per tre mesi mi ha tenuto nella città. È stato particolare, sono rimasto al San Ferdinando – teatro storico di Eduardo De Filippo – per molto tempo, mentre eravamo in zona rossa. Avevo allestito uno studio nell’attico del teatro, da dove potevo vedere una Napoli inedita: già in quei giorni iniziavo a scrivere in napoletano, per lo spettacolo a cui stavo lavorando, e sono rimasto subito colpito. Stavo infatti utilizzando un canale espressivo mai scelto prima, praticamente è stata una specie di esplosione nel cuore. Ho deciso quindi di approfondire questa scoperta scrivendo canzoni e mi sono ritrovato così tantissimi brani in napoletano.
C’è una forte teatralità del dialetto che dona alla storia una certa trasversalità, facendola uscire così dalla canzone…
È vero. Riconosco la teatralità del dialetto, che davvero dà al racconto una forma trasversale. Solo adesso mi rendo conto di cosa vuol dire lavorare in una direzione di questo tipo. Nel mio caso, poi, rifacendomi a un napoletano più arcaico meno legato alla strada, la teatralità è stata anche il frutto di tanto studio, su come usare quel dialetto, come pronunciare le parole, come aprire le vocali.
La tradizione, le radici: che ruolo svolgono per Francesco Forni cantautore?
Sono cresciuto a Napoli, ma ho radici in più parti d’Italia. Nel mio stesso palazzo vivevano i nonni materni napoletani e i nonni paterni, dal Veneto e dal Trentino-Alto Adige. Ho vissuto due realtà diverse, sempre, ogni giorno. A partire dal pranzo della domenica che poteva essere spaghetti con le vongole e pesce, oppure gulasch e funghi. Fino all’adolescenza ho avuto un grande amore per una certa napoletanità: come Roberto De Simone o come Pino Daniele, ma anche per la canzone napoletana classica di Roberto Murolo. Dopo sono andato alla ricerca del mondo, del sound più lontano possibile da casa mia: blues, rock, funk, world music. Sono rimasto affascinato da tantissime sonorità diverse e quindi ho cercato ispirazione in una musica che non aveva niente a che fare con le mie origini. Portare poi la mia musica all’estero, era una grande soddisfazione. Ma questa volta è davvero diverso. Adesso mi sento molto legato al mio lavoro, che riprende molto i posti in cui sono cresciuto: è come se le radici avessero ora una forza maggiore su di me. Mi sento come se stessi portando qualcosa di più importante, che non riguarda solo me, una parte di un disegno più grande.
Forse c’è anche una responsabilità, o una paura, nell’andare verso le proprie origini…
È vero. Soprattutto all’inizio mi chiedevo se fosse il caso di addentrarsi in una cultura, in una tradizione con una personalità così forte. Ero spaventato, ma allo stesso tempo affascinato. Ho vinto questo dubbio entrandoci dentro con tutto me stesso, concedendo a questo lavoro delle cose molto intime di me. È stato un po’come l’uso della maschera in teatro: nel disco ho usato personaggi per raccontarmi, nel profondo, che in altri modi non avrei mai fatto. Ho vinto la remora di avere il permesso di introdurmi nell’universo delle tradizioni curando il lavoro in tutti i dettagli.
Hai partecipato alla 14esima edizione del Premio Andrea Parodi e hai vinto come Migliore interpretazione grazie alla tua rilettura di “Inghirios”. Cosa rappresenta per te questa vittoria?
In un momento in cui mi approccio per la prima volta al mio dialetto, mi sono ritrovato a cantare in sardo, che è una lingua difficilissima. Mi sono però sentito a mio agio. Ho reinterpretato la canzone, riscrivendo le armonie, ma rispettando il dialetto e la forza di “Inghirios”: la forza di una danza di corteggiamento. All’inizio sembrava una scelta coraggiosa, ma poi è arrivata la conferma che avevo fatto bene. Per me quel riconoscimento è stato un grande onore, più che una vittoria professionale.