Poco più di cent’anni fa c’era Giovanni Pascoli e il suo “Fanciullino”, in cui il poeta descriveva una sorta di spirito che alberga dentro di noi, primordiale e incontaminato, in grado di guidare l’essere umano attraverso non la mera quotidiana esperienza ma l’immaginazione e la sensibilità. E cent’anni più tardi ci sono i romani Pure, convinti che sia la musica stavolta, e non la poesia, a risvegliare la parte più pura e genuina di noi stessi. Da qui il nome “Pure” appunto, da quest’idea di “purezza” che crescendo viene smarrita dall’uomo, ma che può e deve essere recuperata tramite un percorso di crescita interiore e spirituale. Il messaggio della band infatti è una volta tanto un messaggio di speranza, in cui si auspica l’amore come l’unica via concreta per un futuro migliore.
O più semplicemente per avercelo, un futuro.
Ora, con queste premesse chiunque potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un gruppo di rock cristiano pieno zeppo di testi bigotti e musiche da sala d’attesa.
La verità invece è che i Pure picchiano di brutto.
Possenti cavalcate di matrice nordeuropea, groove arrembanti e inaspettate sferzate melodiche sono le caratteristiche salienti del loro sound, maturato grazie agli ascolti di band quali Muse, 30 Second to Mars, Depeche Mode e Deftones. Il tutto condito nei live con delle proiezioni visive che completano l’esperienza dello spettatore, evocando suggestive immagini che si fondono con la musica.
Due le opere all’attivo, “Through my eyes” (2009) e la più recente “Love after the end of the world” (Bulbartworks, 2012); proprio quest’ultimo è un concept album sulla fine del mondo intesa non come catastrofe planetaria ma come rinascita dell’individuo, che si erge dalle tenebre tramite una rinnovata coscienza in grado di consentirgli di intraprendere finalmente le scelte corrette.
Matteo Rotondi (Discover)