Ho mille chiavi di lettura diverse per questo disco dei PoST dal titolo “Ten Little Indies”, terzo lavoro di inediti di una carriera che oggi spolvera anche un brano in italiano come singolo estratto da una tracklist che abbraccia i contorni new wave di un pop-shoegaze sospeso e riflessivo. E vista la dimensione umana e interiore della ricerca, penso che siamo noi questi piccoli indiani, siamo i tanti “noi” diversi che convivono dentro e che da dentro ci fanno sembrare cose diverse. È un tempo in cui resto affascinato dal grigio tenue di quel suono che mai cerca dinamiche che risolvono la vita. Belli anche i video che troviamo in rete…
Sento un forte taglio inglese e non è un caso che il master arriva da li… o sbaglio?
Nessun errore. Dopo alcuni mesi successivi alle registrazioni presso il Real Sound a Milano, sentivamo il bisogno di dare una forma alle canzoni, già pre-prodotte, al pieno dell’intenzione iniziale. Seppur ampi conoscitori delle forme musicali della moderna Albione, abbiamo avuto l’opportunità di collaborare con Pietro Cavassa (Anythingpointless), resident in Regno Unito da diverso tempo. Le sue esperienze e contaminazioni ci hanno permesso di realizzare ciò che da soli, coinvolti in prima persona, probabilmente non avremmo potuto esprimere.
Il mix di voce spesso tagliente e quasi “scollato” dal suono… richiami new wave?
I brani di questo Ten Little Indies narrano storie, situazioni e vicende dal punto di vista di chi le vive: è la voce interiore che esce dai diffusori e ti dice cosa accade e come si sentono le persone in quel momento. Uno degli sforzi esercitati è stato quello di ricamare con trame armoniche e melodiche intorno alle linee vocali di Gio, senza dover intervenire troppo in termini tecnici: compressioni ed equalizzazioni incisive sono stati decisamente contenuti, per avere una narrazione di più ampio respiro.
Eppure, come dentro “My City”: quanto siete in cerca di forme pop più che di altro?
La scrittura di alcuni brani, come pure My City, ci ha visti nel tempo realizzare anche 3-4 versioni degli stessi, prima di scegliere quella definitiva. In questo processo, durato anche qualche anno (grazie 2020!), siamo stati investiti da moltissime forme di pop anglosassone ed oltreoceano, dandoci più apertura nella scelta di soluzioni negli arrangiamenti.
Per restare dentro questo brano: belle le orchestrazioni. Come le avete scritte e registrate?
La prima versione del brano aveva un arrangiamento a dir poco caotico, denso, tutto armonicamente in ordine… ma in netto contrasto con lo spirito del testo (una sorta di “ode” alla propria città natìa) ed il senso di incanto della voce principale di Gio. Un bel giorno Davide ci porta qualche accordo suonato con la chitarra acustica: Daniele impazzisce per la pulizia e ricorre al piano, incentrando tutto sul “poco ma buono” anche grazie al tocco di Antonio, le spazzole ed un set di batteria essenziale. Voluto questo arrangiamento, abbiamo poi inserito archi Mellotron e cori per mantenere l’ariosità presente anche su altri brani.
Mentre dentro “More” scaviamo quasi nel post-rock almeno con le voci corali tolte dal centro…
Sì, una tecnica che abbiamo consolidato in qualche anno di lavoro con Davide e Daniele è stata utilizzare i cori come un vero e proprio strumento aggiuntivo. Dal post-rock alla new-age se vogliamo, la quasi filastrocca che ruota su questi cori è il succo della tematica che More intende esporre: una maniera “avvolgente” per raggiungere le orecchie di chi vuole ascoltare.
La sospensione, come dentro “January”, sta a richiamare la condizione sociale di oggi?
In parte: il primo soggetto di January nasce da un film degli anni ‘90 dell’ottimo Kaurismäki – Ho affittato un killer – e successivamente conformato ad una differente situazione personale. Nella pellicola, il protagonista viene sopraffatto da una sequenza di eventi spiacevoli, originati anche da un contesto sociale ed economico critico. Invece il nostro personaggio, interpretato da Sergio Rubino nel videoclip girato da Giorgio Blanco, proprio quando si ritrova sospeso, inizia a capire cosa non va: questa sorta di “stasi”, prima della fine del brano, gli permetterà di ritrovare se stesso. Andatelo a vedere perché è proprio un bel corto!