– di Martina Rossato
foto di Riccardo Michelazzo –
Con il nuovo disco Pista Nera, i Post Nebbia esplorano temi di fragilità e smarrimento attraverso una narrazione intensa e sonorità che uniscono sperimentazione e malinconia. Carlo Corbellini, leader della band, racconta un mondo in bilico tra introspezione e realtà, dove l’immaginario della montagna e dello sci diventa il simbolo di una società che cerca di preservare ciò che è destinato a cambiare. In attesa del tour che partirà a gennaio, la band si prepara a portare sul palco tutta la potenza espressiva di questo nuovo lavoro, nato dall’urgenza di divertirsi e comunicare con sincerità.
Ciao, piacere di conoscerti! Come stai e soprattutto quanto freddo fa in questi giorni?
Ti chiamo da Torino, dove vivo da un paio di anni, ma tra pochi giorni torno a Padova. Qui a Torino fa più freddo rispetto alle mie zone. In questi giorni me la sto prendendo con calma perché tra poco inizierà il tour. Sto finendo di sistemare alcune cose, ma nel frattempo mi sto rilassando un po’, quindi direi che va tutto bene. Con quello che faccio posso muovermi un po’ dove voglio.
A volte fare il musicista ha i suoi vantaggi! Entriamo nel vivo: parliamo di questo nuovo disco, che trovo bellissimo. Mi è piaciuta molto la metafora della neve bianca che copre tutto quello che ci circonda. Qual è stata l’idea alla base?
L’ispirazione è nata dal mio rapporto con la montagna, dove vado spesso d’inverno. Tuttavia, negli ultimi anni nevica sempre meno, e questa assenza di neve crea una sensazione malinconica. Hai mai visto la montagna d’inverno senza neve? È deprimente: tutto secco, marrone, schiacciato. Lasciando sedimentare questa impressione personale è nato il tema visivo del disco, che non riguarda solo la neve, ma lo sci in generale. Ad esempio, un paio d’anni fa, durante una grave siccità, per sparare neve artificiale si utilizzò acqua dai bacini idrici d’emergenza. È un esempio chiaro di come l’umanità cerchi di ricreare condizioni ormai impossibili, ignorando i segnali del mondo che ci circonda. È un po’ la metafora di come viviamo oggi: le cose vanno male, ma continuiamo a vivere come siamo abituati.
Interessante. Nel tuo modo di scrivere c’è sempre un dualismo: da un lato la realtà concreta, come lo sci o la montagna, dall’altro un aspetto più astratto e surreale. Questo è un modo per riconciliarti con una realtà che ti provoca tristezza o è un tentativo di fuga?
Forse è più un modo per evidenziare l’assurdità di certe situazioni senza esprimere giudizi. In questo disco ho voluto scrivere per immagini, estremizzando alcune cose per lasciare spazio all’immaginazione dell’ascoltatore. Preferisco che chi ascolta possa vivere l’immagine e trovarci qualcosa di proprio, piuttosto che dire loro cosa devono provare.
Quindi è un modo per rendere le cose più neutre?
Non direi neutre, ma sì, è un modo per non sparare sentenze. Non penso che qualcuno voglia ascoltare un disco in cui l’autore pontifica per mezz’ora. Preferisco dipingere una scena e lasciare che ognuno la interpreti.
Una visione molto bella e rara. Parliamo di Leonardo, con cui si apre il disco. Chi è per voi, per te, questo personaggio?
Non c’è una storia precisa dietro. L’idea è venuta a Giulio, il mio tastierista [Patarnello, nda]: volevamo evitare il cliché di aprire il disco con una traccia strumentale e per aggiungere un espediente narrativo. Giulio ha suggerito di aggiungere l’annuncio della voce iniziale, che introduce il tema dello smarrimento. Immagina un bambino a sciare con i genitori, un bambino che magari è cresciuto in un contesto privilegiato. Improvvisamente si perde ed è solo in un mondo tutt’altro che idilliaco e utopistico.
Dal punto di vista pratico è stato divertente realizzare questa parte; abbiamo coinvolto il nostro manager, originario di Feltre (Belluno), un posto in cui l’accento delle valli è molto marcato. Ci ha inviato una cosa come sedici audio tra cui scegliere, registrati dai suoi parenti e amici con accenti locali [ride, nda].
Questo disco trasmette un’idea di mondo fragile e ostile. Qual è la vostra visione del futuro?
Tutto sembra estremamente fragile. La nostra condizione di musicisti, il mercato dell’intrattenimento, tante cose si basano su equilibri precari. Questo è un po’ il tema del disco: nei primi brani si parla di crolli. Guardandoci intorno, sembra che la società sia concentrata più a conservare che a innovare, ignorando il fatto che il mondo ci crolla attorno. Questo si riflette anche nella musica: rispetto al passato, è più difficile suonare e fare molte date. Forse è necessario arrivare a un punto di rottura per ripartire.
Secondo te, quale potrebbe essere questo punto di rottura?
Quando diventerà impossibile fare le cose in modo strutturato. Già oggi molti progetti musicali sono troppo costosi per i promoter. Se i costi aumentassero ancora, la musica potrebbe avere l’occasione di tornare a essere un servizio più “artigianale”: concerti nei garage, autogestione e così via. Ma è difficile viverci in questo modo. La musica è nata come servizio e solo dopo è diventata una merce. Forse torneremo a quel punto, ma vedremo.
Tornando al disco, lo trovo molto vicino alla nostra generazione. Come vi rapportate a un pubblico più vario?
Non è una cosa a cui pensiamo quando scriviamo. Penso che il disco possa piacere a chi apprezza certi sound nostalgici, ma anche a chi percepisce il disagio del presente. Non credo sia una questione generazionale: parliamo del presente, e il presente riguarda tutti indipendentemente dall’età.
In passato avete definito Entropia Padrepio più maturo della vostra precedente musica. Come vi descrivereste ora?
Con questo disco volevamo divertirci e creare qualcosa di potente per il live. Dopo il tour di Entropia Padrepio ci siamo consolidati come band e volevamo qualcosa di meno impostato e più istintivo. Non direi che siamo maturati, ma ci siamo ottimizzati [ride, nda].
E come nasce la vostra passione per la musica brasiliana, che si sente un po’ anche in Pista Nera?
L’ho scoperta qualche anno fa, grazie a Spotify, bisogna proprio ammettere che l’algoritmo a volte funziona. C’è un mondo incredibile di musica brasiliana dagli anni ’60 e ’70, che mescola influenze occidentali con ritmi e melodie uniche. Cerchiamo di incorporarla nei nostri pezzi, anche se con il nostro stile. Non era voluto che questa influenza si sentisse, ma ben venga!
La copertina del disco è bellissima. È nata prima l’idea del disco o la copertina?
La copertina è arrivata dopo, quasi per caso. Durante una sessione di prove in montagna, ho trovato vecchie diapositive del mio bisnonno. È stata una coincidenza particolare, perché il tema del disco è arrivato abbastanza tardi e non era ancora ben definito. Dopo averne colorizzate un paio, una di queste foto si è rivelata perfetta come copertina del disco, anche perché restituire colore alle foto in bianco e nero dà loro un alone di finto e pittorico. È stato un gesto del destino.
Un’ultima curiosità: c’è un richiamo a Shining o Twin Peaks nell’atmosfera del disco?
Non era voluto, ma sono grandi influenze: Shining è uno dei miei film preferiti e ho visto Twin Peaks nel periodo in cui stavo scrivendo il disco. È bello che si percepisca.
Grazie mille per il tuo tempo. Non vedo l’ora di sentirvi dal vivo!