Avere un amico affetto da forme lievi di disturbo da deficit dell’attenzione può essere snervante, ma di sicuro non ci si annoia. Era il 2013 quando Leonardo mi faceva ascoltare per la prima volta “Drogata Schifosa”, e io aspettavo la fine della traccia per pronunciare la battuta del più banale dei copioni sulle storie d’amore.
“Che è questo schifo?”
PoP_X è un monologo di Petrolini durante un live di Tiësto. Siete voi, emotivamente distrutti, ubriachi di alcolici del discount, che fate un giro sul Tagadà durante la festa patronale di un paesino di provincia. PoP_X è l’incontro di Davide, Nicolò e Walter, inteso come risultato unico, ed è Davide Panizza, che è anche un missile e RE ARTù, inteso come risultato multiplo. Quindi parliamo dei PoP_X, oppure di PoP_X. Anzi, facciamo che non importa. In fondo è tutto un problema, persino stabilire una pronuncia univoca. Perché “PoP-Pèr” è droga occasionale, e i “Pop-Ics” sono la sintesi di un suono a largo consumo del decennio ’90: un’incognita matematica, o una cosa X, qualunque. E la parte migliore è che tutto questo esiste contemporaneamente, giusto per non farvi capire di che stiamo parlando.
“Greatest Hits”, il primo lavoro in copia fisica dopo anni di attività virtuale ed esibizioni live, raccoglie 15 tracce selezionate all’interno dell’enorme produzione 2004-2015. Il disco è stato lanciato il 20 febbraio, prima data del Tour negli Stadio che il 14 aprile ha portato PoP_X a Roma. Io sono fuori, da qualche parte in una folla che mi fa preoccupare per il rispetto delle norme antincendio del “Le Mura”. Il segnale d’ingresso arriva sulle pulsazioni elettroniche di “Pierino”, prima traccia dell’album, e ci lasciamo spingere, tirare dentro. Al resto bisogna assisterci per capirlo: i live di PoP_X si nutrono della commovente dimensione di un teatro itinerante, del menefreghismo punk, di quella parte di futurismo di cui non si è ancora impossessata la destra da quattro soldi.
Il suono struttura geometrie caotiche e affilate come quelle che popolano le grafiche del progetto, e sotto i suoi picchi e le superfici lisce batte una tachicardia di casse, clap e hi-hat, sprofondati in nubi di pad e sintetizzatori. La tracklist ripercorre il disco e lo stravolge, concedendosi digressioni e fuori pista fino ad arrivare ad una cover di “Ragazzo della via Gluck”, passando per “Froci delle Nike”, incurante delle richieste urlate per “Gospa”, o delle mie, che mi sgolavo per ascoltare “Tania ad Helsinki”. Si balla fino alla sauna, giga e tarantella assumono insospettabili sfumature cyberpunk. E sulla festa si stende la voce del Matto, in uno struggimento sovraccarico di tragedia in vocoder. Perché PoP_X è un’esplosione rappresa di gioia e sofferenza ugualmente distruttive e ugualmente presenti, è movimento scoordinato in cui si canta fino a farsi lacrimare gli occhi.
Fuori, Davide si riposa appoggiato ad una macchina. Ci siamo accordati per un’intervista dopo il concerto, e per me è arrivato il momento di smetterla di agitarmi come una ragazzina e fare qualche domanda.
Finalmente ti ho visto dal vivo: prima di tutto fatti abbracciare *lo abbraccio*. Nelle tue composizioni si sente il pesante influsso della cultura dell’Eurodance, che crea un’atmosfera complessivamente spensierata e ballereccia. I tuoi testi invece mostrano spesso una frattura con questa spensieratezza, guardandola con una specie di malinconia. Qual è il rapporto che hai con la scrittura, quando arrivi al momento di metterla sopra, intorno, dentro alla tua musica?
È una domanda un po’ ampia… Ho un rapporto personale: per me dipende da delle suggestioni, degli imput che ricevo dagli ambienti che frequento. La scrittura procede in base al contesto, non c’è una costruzione prima.
Parliamo di due tracce: “Cattolica” e “Sono robot”. La prima ha una narrazione di grande trasporto emotivo, nella seconda viri verso l’inconsolabilità, una sorta di nichilismo. Sono dimensioni che ho trovato molto presenti nei testi di Lindo Ferretti: il suo lavoro, dentro e fuori dai CCCP ti ha influenzato in qualche maniera?
Nel frattempo arriva Nicolò, che mi offre un bicchiere di amaro. Quando gli chiedo cosa sia mi sorride e biascica “Segafredo”. Ringrazio e prendo un sorso. Da qui in poi si concederà qualche incursione a base di rutti durante le risposte di Davide.
Ho ascoltato i CCCP e i CSI, li conosco abbastanza bene. Non penso sia un’influenza diretta: li ho immagazzinati, quindi credo che a livello subliminale vengano fuori. Quando scrivo o compongo non mi interessa ispirarmi a qualcuno in particolare. È una memoria subconscia.
Nel tuo lavoro sui testi ho spesso notato un riferimento molto forte all’universo femminile. Le donne che contributo danno alla tua arte?
Ci sono sempre, sono fondamentali. A volte in maniera un po’ nascosta, come una specie di sotterfugio. Ma è semplicemente una questione istintiva, di orientamento sessuale.
Prima di potere assistere ad un vostro live ne ho guardati diversi su YouTube: perché questa sera hai deciso di esibirti con i pantaloni addosso?
All’epoca, quando facevo i live senza i pantaloni, ero più giovane e quindi più gagliardo. In realtà poi anche questo dipende molto dall’ambientazione. Stasera ho voluto concentrarmi sul cantare le canzoni, come un cantautore, e quindi non ho curato tutti questi altri aspetti. Due-tre anni fa, o in un altro contesto, avrei cantato senza pantaloni.
In un’altra intervista avevi detto che la scelta di far uscire un disco è puramente legata al fatto che qualcuno abbia deciso di investirci. Se non fosse stato così avresti continuato a lavorare solo dal vivo e su internet?
Assolutamente sì, è solo per quello. Infatti io continuerò a lavorare con internet. Il fatto che qualcuno mi abbia detto “Io pago la stampa dei dischi” è stato uno stimolo per fare anche un lavoro in copia fisica, visto che semplicemente io non avrei avuto abbastanza soldi. Tirare fuori mille copie come abbiamo fatto noi, significa una spesa di almeno 1.500 euro che non avrei mai fatto. Invece ora c’è della gente che l’ha fatto al posto mio, e quindi sono contento.
I tuoi video di YouTube hanno pochissimi “Non mi piace” rispetto al numero di views, ed è molto strano per un prodotto che si confronta con una dimensione selvaggia come il web. Penso che dipenda da una forte empatia che riesci a creare fra te e chi ti ascolta. Oppure a volte sei un po’ paraculo?
A volte sento di toccare delle corde che possono riguardare le persone più “universalmente”, ma non è una scelta. Per me più o meno empatia da parte di chi mi ascolta è un discorso legato all’ampiezza di pubblico: se il numero di persone che mi ascoltano è maggiore, allora è più probabile che qualcuno si riveda in quello che dico. Non cerco di forzare la cosa.
Hai lavorato con il rapper Mortecattiva, che è considerato uno degli artisti più interessanti della tua zona (Trentino, n.d.r.). Parlando di altre realtà nella stessa area, hai in mente di collaborare anche con Ceri, visto che entrambi vi occupate di produzione musicale, anche se per generi diversi?
Ceri l’ho conosciuto in un workshop al conservatorio di Padova, dove lui si è diplomato in musica elettronica. Io ho studiato la stessa cosa, ma a Trento, e quando ci siamo incontrati mi ha detto che gli piacevano le mie canzoni. Ha realizzato un remix di “Io centro coi missili”, ma poi la collaborazione non è andata più in là.
E allora, dopo il Tour negli Stadio?
Farò dei live in posti ancora più grandi. Tipo le piazze, o sui litorali, a Frascati.
Giovanni Cerrati
Photo ©Beatrice Mannelli
Post-production ©Lau Svankmajer